sabato 1 agosto 2020

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Sonetto 116, di William Shakespeare]

Non sia mai ch'io ponga impedimenti all'unione di anime fedeli;
Amore non è Amore se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l'altro s'allontana. Oh no! Amore
è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni sperduta barca, il cui valore è sconosciuto,
benché nota la distanza. Amore non è soggetto al Tempo,
pur se rosee labbra e gote dovran cadere
sotto la sua curva lama; Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio: se questo è errore
e mi sarà provato, io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.

sabato 8 giugno 2019

Uno spunto per malumore, per sorridere alla vita


In un tempo di malumore; quale un furto può generare,
si innesca un tempo di camminate, per tornare a ciò che fa sorridere.

L’albeggio trova dei coniglietti, due o tre, a mangiare indisturbati nel parco;
le macchine scorrono già veloci, sotto il ponte aereo;
percorrere quindici chilometri giornalieri, anticipa le ascese estive;
l’arrivo al lavoro al solito orario, non è così scontato;
pensare di tornare a casa, innesca la piena consapevolezza di volerlo fare;
i bambini nei cortili, giocano ancora a mondo;
un lui e una lei anziani lasciano lo spazio per guardarsi come la prima volta, stando seduti su una panchina;
uno scoiattolo si ferma mentre gli passo vicino, senza scappare;
il sole si fa rosso all’orizzonte, quale volesse bruciare il cielo;
l’uomo del negozio al piano terra ci prova, nonostante i mei cinquant’anni.

E così, ciò che arriva imprevisto, può riportare in quella fetta di realtà che l’abitudine poteva farmi dimenticare.
E sorrido alla vita, che con me è sempre stata generosa, anche nel regalarmi comodità.

lunedì 20 maggio 2019

Poniamoci una domanda

So che è brutto dirlo, ma forse è giunto il tempo di porsi una domanda con sincerità: siamo ancora un paese civile?

sabato 4 maggio 2019

Farewell di Guccini



Farewell di Guccini



E sorridevi e sapevi sorridere coi tuoi vent' anni portati così,
come si porta un maglione sformato su un paio di jeans;
come si sente la voglia di vivere
che scoppia un giorno e non spieghi il perchè:
un pensiero cullato o un amore che è nato e non sai che cos'è.

Giorni lunghi fra ieri e domani, giorni strani,
giorni a chiedersi tutto cos' era, vedersi ogni sera;
ogni sera passare su a prenderti con quel mio buffo montone orientale,
ogni sera là, a passo di danza, a salire le scale
e sentire i tuoi passi che arrivano, il ticchettare del tuo buonumore,
quando aprivi la porta il sorriso ogni volta mi entrava nel cuore.

Poi giù al bar dove ci si ritrova, nostra alcova,
era tanto potere parlarci, giocare a guardarci,
tra gli amici che ridono e suonano attorno ai tavoli pieni di vino,
religione del tirare tardi e aspettare mattino;
e una notte lasciasti portarti via, solo la nebbia e noi due in sentinella,
la città addormentata non era mai stata così tanto bella.

Era facile vivere allora ogni ora,
chitarre e lampi di storie fugaci, di amori rapaci,
e ogni notte inventarsi una fantasia da bravi figli dell' epoca nuova,
ogni notte sembravi chiamare la vita a una prova.
Ma stupiti e felici scoprimmo che era nato qualcosa più in fondo,
ci sembrava d' avere trovato la chiave segreta del mondo.

Non fu facile volersi bene, restare assieme
o pensare d' avere un domani e stare lontani;
tutti e due a immaginarsi: "Con chi sarà?" In ogni cosa un pensiero costante,
un ricordo lucente e durissimo come il diamante
e a ogni passo lasciare portarci via da un' emozione non piena, non colta:
rivedersi era come rinascere ancora una volta.

Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione,
e il peccato fu creder speciale una storia normale.
Ora il tempo ci usura e ci stritola in ogni giorno che passa correndo,
sembra quasi che ironico scruti e ci guardi irridendo.
E davvero non siamo più quegli eroi pronti assieme a affrontare ogni impresa;
siamo come due foglie aggrappate su un ramo in attesa.

"The triangle tingles and the trumpet plays slow"...

Farewell, non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d' estate
con qualcosa di fragile come le storie passate:
forse un tempo poteva commuoverti, ma ora è inutile credo, perchè
ogni volta che piangi e che ridi non piangi e non ridi con me...

martedì 27 novembre 2018

Desiderio del Cielo

Come si fa a non desiderare il Cielo di fronte a cotanta bellezza?

lunedì 12 novembre 2018

First man ... and his wife Janet


È bello vedere un film dove la figura femminile ha la statura di una donna.
Della donna che si desidera essere, se si volesse avere entità di amica, compagna di vita, moglie, madre.
Una donna che cammina per casa a piedi scalzi, e che resta in silenzio davanti al proprio dolore e al dolore dell’uomo che ama, per l’addio che dà una figlia; così come può alzare la voce e scaraventare una valigetta se c’è da dire, da dire un possibile addio ai propri figli.
Insomma un film che intitola “Primo uomo”, ma che io avrei almeno sottotitolato “ … e Janet Shearon: sua moglie”.
Detto questo il documentario - con estremo realismo - racconta della conquista tra le più grandi dell’umanità, per la quale risuona ripetutamente la domanda: ma ne valeva la pena?
Come risponde l’interprete: "Forse la domanda andrebbe posta prima di essere immersi nella dinamica che vorrebbe rendere possibile la conquista".
In ogni caso, il film risponde alla domanda, che è la domanda della vita. 
Janet introduce la risposta in un dialogo con Neil Armstrong affermando: “Sarà un nuovo inizio, sarà un’avventura!”
La risposta conclusiva del film è: non è il dolore, la fatica o il rischio che frenano l’uomo, bensì è il desiderio di infinito che lo rende inarrestabile!
Un film da vedere.

giovedì 27 settembre 2018

Se... pensi.


Se ti svegli preoccupata perché hai da condurre una giornata di lavoro con venti colleghe: pensi che è inevitabile avere timore delle imprevedibili possibilità;
se alla fine del convegno sei lieta e grata: pensi che è ragionevole contare sulla collaborazione dei tuoi simili, per una costruzione comune;
se hai da insistere per far comprendere ad una laureanda che una media ponderata a fine carriera, non può essere legata al voto d’esame sostenuto il giorno precedente: pensi che è utile alzarsi, prendere il faldone d’archivio e fare con lei un ragionamento matematico;
se ti accorgi che l’indomani hai dato un appuntamento ad una studentessa di un’altra università e all’improvviso - per quel momento - si è sovrapposto un impegno inderogabile: pensi che sarebbe stato utile appuntarsi almeno un recapito telefonico dell’ignara fanciulla;
se ti ritrovi a dover riaccendere il computer quando è tardi e stai uscendo dallo studio: pensi che hai fatto tutto quello che ti hanno chiesto, ma ti sei dimenticata di una mail che avresti dovuto inviare “inderogabilmente”;
se ti trovi in mezzo alla strada con il rischio di essere travolta da un taxi davanti e da un tram di dietro: pensi che hai attraversato la strada con il semaforo rosso, in modo assolutamente distratto e che … “non è la tua ora”;
se percorri piazza del Duomo e ti incanti a guardare la luce del sole che illumina la candoglia: pensi che la giornata è stata “meravigliosamente settembrina”;
se alle 19.30 di sera incontri sulle scale della metropolitana in uscita, un signore che hai incontrato alle 6.30; pensi che molto probabilmente sarà stanco come lo sei tu;
se raggiunta l’auto ti accorgi che le foglie degli alberi hanno macchiato “collosamente” i vetri: pensi che l’autunno è ormai vincente;
se finalmente raggiunto il silenzio della casa, riemerge come ti senti goffa con chi ti è più caro: pensi che è impossibile amare se non fosse per il Mistero che lega;
se alla fine della giornata ti trovi a tratteggiare il vissuto con uno scritto: pensi che è perché - per quanto possibile - vorresti trattenerlo e, nello stesso tempo, consegnarlo!



lunedì 23 luglio 2018

Lo svelarsi del Mistero


Diverse volte, alla mattina, capita che il mio percorso si intrecci con quello di uno scoiattolino.
Lui attraversa la strada proprio nel contempo che io arrivo con la mia Panda.
Mi fermo, e lo lasco passare, come si farebbe con un pedone.
Non so se questo accade perché:
ha capito che anche a me piacciono le noccioline (Peanuts);
albeggia, e anche lui ha la sveglia a quell'ora;
oppure, perché vuole intercettare la tenerezza del mio pensiero di sala parto e nascita.

Accade, durante il lavoro, che lo sguardo di un bambino piccolo piccolo mi ferma il respiro.
Lo stupore di due occhietti che vorrebbero mettermi a fuoco, dilatano l’attimo dell’apnea post espiro.
Non so se questo accade perché:
giovedì erano occhietti vitrei, di una creatura inanimata;
venerdì quel piccolo uomo con la pelle ancora bianca, aveva i tratti inconfondibili di un africano, che tra qualche giorno sarà nero;
oggi con Edoardo non si poteva che incrociare lo sguardo, perché in un leporino il resto del viso resta incompleto.

Spesso capita, camminando in città, che attraversando piazza Duomo mi lascio sorprendere da dei suoni accordati.
A volte è il flauto di un uomo straniero.
Altre volte è un appassionato sassofono tenore.
Oggi era un violino, di cui l’archetto era sollevato da una giovane ed agile mano.
Non so se questo accade perché:
gli Inti-Illimani piacevano a mia sorella, pertanto mi suscitano dolci ricordi;
quando ascolto un fiato struggente, la malinconia mi assale;
dopo una lunga ed intensa giornata, vorrei che il passo che mi riporta a casa, fosse leggero.

E' così, e non so se quello che mi accade, riesco a comprenderlo come dovrei.
A volte penso di sì, a volte credo di no.
So solo una cosa con certezza: nell’attimo, se lo so cogliere, si svela sempre un tratto di Mistero.

sabato 21 luglio 2018

Articoli che restano come segnalibro

«È cruciale per ciascuno di noi: il giorno in cui non ci rendessimo più conto della nostra infermità e della nostra miseria, non ci renderemmo nemmeno più conto della grazia di avere Qualcuno che possa guarire le nostre ferite. Non avremmo più bisogno di Cristo». (Julián Carrón da Dov’è Dio?, conversazione con Andrea Tornielli, Piemme). Prima ho sottolineato questa frase, poi ho fatto un orecchio alla pagina – con la brusca confidenza che ho con i libri che mi diventano cari – poi la ho ricopiata.
Dall’adolescenza, e forse anche da prima, ho sempre avuto l’idea di essere nata con qualcosa di sbagliato. Qualcosa che non funzionava a dovere, come se io fossi stata una casa e quell’errore una profonda crepa in un muro portante, come se io fossi stata un argine, e quell’errore una falla da cui l’acqua poteva penetrare. Mi pareva che i miei amici non avessero quella crepa in sé, oppure che non se ne dovesse parlare. Che ci si dovesse mostrare sereni, positivi, vincenti, o magari anche arrabbiati, ma solo con la società e lo Stato e l’ordine costituito, cioè verso qualcosa di esteriore. Io invece non ero arrabbiata con il mondo, non andavo in giro per Milano alzando il pugno. Era in me, quel taglio che mi ricordava la tela lacerata dei quadri di Fontana. Ma, insomma, era evidente che non se ne doveva parlare. Era il male di vivere descritto da una poesia di Montale: «Era il rivo strozzato che gorgoglia, era la foglia riarsa, era il cavallo stramazzato», studiammo a scuola – ma nessuno in classe avanzò il dubbio che si stesse parlando di noi.
Da ragazza al mattino mi guardavo allo specchio, mi sorridevo, pensavo alla mia crepa e mi dicevo: via, di che ti preoccupi, sei giovane, sei bella. Crescendo però la crepa pareva approfondirsi, nera sul mio muro bianco interiore. Si allargò, si fece malinconia: poi patologica, severa depressione. Andai da dei medici, mi curarono, mi sentii meglio; poi di nuovo, a intermittenza, la crepa si evidenziava, dolente, e sussurrava: non sei guarita, non lo sarai mai. Continuavo a non parlarne con gli amici, col pudore con cui non si parla degli affetti più intimi, o del sesso.
Lessi Mounier. «Dio passa attraverso le ferite», scriveva. Ci riflettei: che fosse, la mia crepa, un pertugio in una parete impermeabile, una lacerazione necessaria? Poi me ne dimenticai, attenta a dosare con cura sempre nuovi farmaci che mi acquietassero quell’ora sordo, ora aspro dolore. Dolore come per una irrimediabile mancanza, come per una radicale struggente nostalgia. E il mondo attorno a me, dentro a quell’inguaribile dolore: «Era il rivo strozzato che gorgoglia…».
Malattia, sensibilità patologica, o che cosa? Da tempo mi sono rassegnata a non cercare più un nome alla mia crepa. È lì, e, direi, con gli anni, più spaccata e più nera. Però stasera, leggendo, quella frase mi ha toccato nel punto più dolente, e mi ha commosso. Perché quella ferita? Se non ci fosse, io fisicamente sana, io non povera, io fortunata, non avrei bisogno di niente. È una salvezza, quel muro spezzato, quella falla. Da cui un fiotto di grazia, incontrollato, può entrare e fecondare la terra inaridita e dura.


Leggi di Più: La mia crepa | Tempi.it 

giovedì 15 febbraio 2018

sabato 10 febbraio 2018

Donne che sanno amare


Di nuovo si trovò a confrontarsi di colpo con la propria incredibile ignoranza dell’indole di Alexa. Il fatto di sapere abbastanza bene come si sarebbe comportata nelle normali contingenze della vita, e di poter contare in tali occasioni sul grande coraggio e la franchezza che aveva sempre presagito in lei, lo rendeva ancora più sfiduciato sulla sua capacità di penetrare nella tortuosa psicologia di un gesto che egli stesso non riusciva più a spiegare o capire. Sarebbe stato più facile che Alexa fosse stata più complicata, più femminile – se lui avesse potuto contare sulla sua comprensione immaginativa o sulla sua ottusità morale – ma non era sicuro di nessuna delle due cose. Non era sicuro di niente, tranne che, per un certo tempo, doveva evitarla. Non riusciva a liberarsi dall’illusione che di lì a poco il suo atto avrebbe cessato di fare sentire le proprie conseguenze.
Il grido della moglie lo sorprese. «Non ti ha dato me … ti ha dato te stesso». Si protese verso di lui come spinta da un’onta di pietà. «Non vedi?» proseguì mentre lui continuava a guardarla: «che questo è il dono a cui non puoi fuggire, il debito che sei costretto a saldare? Non vedi che prima non eri mai stato l’uomo che lei pensava tu fossi, mentre ora ti ha trasformato, in modo meraviglioso, nell’uomo che amava? Per una donna, vale la pena soffrire per una cosa simile, di morirci … questo è il dono che avrebbe desiderato farti!»
«Ah», gridò lui, «guai all’uomo per colpa del quale ciò avviene. E io, che cosa le ho dato io?»
«La felicità di dare», disse Alexa.

Edith Wharton. La pietra di paragone, pag. 84-85 e 134. La Tartaruga edizioni

sabato 27 gennaio 2018

Vivere

È alzarsi per partire,
è un nonno tutto curvo che spinge a fatica la carrozzina del nipotino,
è un bambino che guarda con entusiasmo un ragazzo-giocoliere al semaforo,
è aspettare nel parcheggio un’amica,
è ascoltare le notizie alla radio,
è ricordare chi ha sofferto,
è fare un viaggio famigliare,
è riuscire a dire quello che si ha dentro,
è prendere un caffè al bar,
è camminare per un paese di case fatte con i sassi,
è un macellaio che taglia con cura un cappello del prete,
è comprare delle salamelle,
è la panettiera che lascia aperta la busta dopo che ha inserito una mica ancora calda di forno,
è la casa tra le colline dove ho studiato per la maturità,
è il fango sulle scarpe cittadine,
è scoprire una via crucis tra le pietre,
è vedere alberi con vicino a ciascuno la targa di un nome d’uomo,
è riconoscere una cappella sotto un porticato,
è entrare in una trattoria a gestione famigliare,
è un bicchiere di gutturnio,
è un piatto di “pissarei e fasoi”,
è non volersi alzare da tavola,
è scoprire uno scorcio di sole che accende il pomeriggio,
è tornare,
è aprire la porta di casa,
è una spremuta d’arancia,
è godere del silenzio di un sabato pomeriggio,
è spegnere il cellulare,
è scrivere i pensieri che tornano,
è lasciare che arrivi la sera,

è abbandonarsi alla notte.

mercoledì 24 gennaio 2018

Niall Williams - Quattro lettere d'amore

Una specie di viaggio in Irlanda.
Piacevole lettura.

sabato 20 gennaio 2018

Quasi quasi realistico.

Per quello che mi passa per la testa...

mercoledì 10 gennaio 2018

WONDER (2017)



Con i film interpretati da Julia Roberts sono sempre caduta in piedi. Non so se li ho visti proprio tutti, sicuramente i più famosi come “Pretty Woman” o “A letto con il nemico”, ma anche i meno famosi come “Scelta d’amore”, si. Sta di fatto che ieri sera è riuscita a destarmi “stupore” per l’ennesima volta - e non solo perché è una donna meravigliosa, o perché è mia coscritta.
Dopo aver accettato di fare qualcosa insieme ad amiche, temevo potesse annoiarmi un film sentimentale, legato a valori americani moralisti. Invece la competenza del regista - che permette ai diversi protagonisti di manifestare il proprio punto di vista con cui affrontare la vita - mi ha appassionato per lo svelarsi della realtà dell’essere umani, che è riuscito a far emergere.
Accettare il diverso è una delle cose più difficili del vivere, ma “non è l’altro a dover cambiare la propria faccia, siamo noi che possiamo imparare a guardare l’altro in modo diverso”. Questo, così da cogliere il punto d’attrazione e la spinta per la crescita personale.
Il film ha permesso il commuovermi nell’ordine per: un direttore scolastico con il coraggio educante, una sorella umana, un uomo-padre, una madre determinata, compagni di vita veri (perché disposti al sacrificio per affermarti come amico), il “prodigio” di un bambino che si lascia amare nonostante l’essere sfigurato da una malattia congenita.
Oddio, forse il merito di aver trascorso una serata piacevole più che a Giulia, devo riconoscerlo a Stephen Chbosky … ma va bene così.
Consiglio: “Wonder”- un film da vedere.

sabato 11 novembre 2017

La bellezza di leggere


Mi capita di leggere molto spesso. Leggo per tanti motivi: per informarmi, per studiare, per correggere, per imposizione, per volontà. Con questo, resta - quando posso scegliere io di leggere una cosa piuttosto che un’altra - di chiedermi quali testi scegliere e perché. Ultimamente alla prima domanda: cosa scegliere; ho dato una risposta strategica. Mi faccio "passare" i libri da chi ne legge anche più di due a settimana. Io ne leggo circa uno al mese, se non meno, pertanto sono certa che chi ne legge più di me potrà consigliarmi qualcosa che ha già superato un filtro: la critica di chi è più avvezzo al gusto del “bel leggere”. Sul perché leggere di volontà una cosa piuttosto che un’altra ho adottato un’altra strategia. Non andando a caccia io stessa di romanzi, gialli o qualsiasi altro genere di scrittura per rispondere ad un mio gusto personale o ad una ricerca particolare di significato, mi rimetto a dare risposta al quesito a fine di lettura; come a dire: mi sei stato suggerito ed ora cosa mi suggerisci?
È così che ad oggi mi trovo di voler guardare ai suggerimenti degli ultimi due libri assaporati.
Il mese scorso ho consumato lentamente “L’età dell’innocenza” e mi sono ritrovata a considerare che spesso l’uomo può rinunciare a una passione quando la vita è dettata da un moralismo fatto di convenzioni e apparenza; ma l’uomo non può rinunciare al desiderio quando la vita mette a nudo la necessità di essere veri e reali.  

Ora mi ritrovo ad aver divorato con inquietudine “La ragazza del treno”, saltando da uno stile lento e romantico ad uno frammentato ed enigmatico. La quarta di copertina dice che non guarderò più fuori da un finestrino del treno come prima. Forse non sarà così, ma è vero che il romanzo è sublime nel trasmettere il mistero drammatico che è ciascuna vita, e quanto l’altro possa restare incomprensibile ai nostri occhi ciechi, e al nostro cuore sordo.


mercoledì 30 agosto 2017

Stasera va, va così.

Si torna al quotidiano,
tornare è un viaggio,
un viaggio caldo,
caldo come l’auto parcheggiata al sole.
È ritrovare le cose solite,
eppure cambiate.
L’irruzione di ladri ha lasciato il segno,
così come ha lasciato il segno lasciare i monti,
lasciarti partire,
accettare di andare a casa.
Manca il silenzio della cima,
resta la nostalgia del sole,
della luce che fa scoprire il colore dei tuoi occhi,
colore uguale a quello di tuo padre.
Eppure oggi ho fissato degli occhi,
occhi in lacrime da dolore profondo,
dolore antico,
generato da un peso di zaino troppo pesante,
troppo pesante per l’età in cui è stato caricato.
Lo zaino era pesante anche per la pietraia,
perché era pensato per il ghiacciaio,
il ghiacciaio avrebbe svuotato il carico.
Così ha cercato di alleggerire il peso l’abbraccio,
l'abbraccio che ho cercato di far sentire,
l’ascolto che ho cercato di dare,
di dare ad una donna giovane,
ad una futura ostetrica,
che non sa ancora se lo diventerà.
Ma il destino è buono,
ne sono certa,
ne sono certa perché quanto te l’ho ricordato,
mi hai sorriso.
Un sorriso fugace,
schivo così come quando si cerca di farti una fotografia,
di trovare il tuo sguardo,
di toccarti.
Ma toccare non deve essere un trattenere,
è giusto lasciar andare,
è buono tenere la giusta distanza,
la distanza di frasi monche,
delle parole che d'inchiostro nascono ora.
Così,
stasera va così,
il mio viaggio si traduce in frasi,
frasi brevi,
forse troppo brevi per essere comprensibili,
ma è il bello della vita:
trovare momenti,
attimi in cui scoprire frammenti di mistero,
attimi in cui il mistero si svela,

attimi in cui le distanze del viaggiare monadi si annullano.

lunedì 10 luglio 2017

Il canto delle cicale

Il ricordo è  legato al loro stridere acuto, nel bosco di pini marittimi del barone Fumarola. Il caldo insopportabile mi faceva sudare i piedi e le piccole ciabattine da mare - giuste per una bimba di tre anni - scivolavano rispetto ai piedini, così da mettere le dita nelle condizioni di urtare gli aghi lunghi e pungenti, che tappezzavano il terreno.
Questo disappunto non fermava il mio pellegrinare, perché guardare i tronchi lanciati e ombrosi, diventava un gioco. Restavo alla ricerca degli involucri abbandonati dagli insetti canterini, mutati.
Oggi - che sono diventata grande - il loro canto è  legato al passaggio da parchi cittadini, dove il caldo di luglio nutre lo stesso cicaleccio che accompagnava le lunghe estati dell'infanzia.
Guastalla, parco delle Cave, parco dei Fontanili; in tutti, quegli insetti stagionali dominano lo spazio sonoro.
Mi riposa ascoltarli. Mi piace cercare di identificare il fruscio che domina sugli altri. Sorrido al pensare che dietro ad una melodia polifonica albergano numerose cicale, che la letteratura ha sempre considerato zuzzurellone.
Forse godo del fatto che il mio desiderio di spensieratezza, sia innescato da uno sbattere di ali.

domenica 2 luglio 2017

Gita domenicale a Fuipiano in valle Imagna

Tornare dove sono stata portata a cinque giorni dalla nascita;
riconoscere scorci dell’infanzia;
raggiungere boschi di latifoglie stranoti;
camminare su prati su cui si è corso per il primo decennio di vita,
dirsi cose tra cugini come quarant’anni fa;
godere della mamma che la racconta a suo fratello;
guardare con stupore la villa che apparteneva allo zio;
prendere l’ombra delle betulle a cui si attaccava l’amaca;
stare al sole sulla panchina di sasso dove trastullavo il bambolotto;
riconoscere che lo sguardo si porta al Resegone che non è cambiato;
commuoversi perché il cuore è sempre lo stesso;

accettare che la nostalgia può essere per qualcosa che c’è, o per qualcuno che manca.

giovedì 8 giugno 2017

Sempre, per sempre.

Lo scialle era ripiegato in modo da fargli vedere il visetto rugoso e le manine avvizzite. Stava lì impalato e si chiedeva che cosa si aspettavano che se ne facesse, le donne, di quel fagotto che la levatrice gli aveva messo fra le braccia, quand’ecco all’improvviso sentì una scossa che fece tremare lui e la bambina. Non veniva da nessuna delle persone presenti, eppure non riusciva a rendersi conto se fosse stata la piccina a trasmetterla a lui o lui alla piccina. E subito il cuore cominciò a battergli nel petto come non era mai accaduto prima, e di colpo non si sentì più intirizzito, né triste, né irrequieto, né arrabbiato e gli parve invece di star proprio bene. La sola cosa che lo inquietava era di non riuscire a capire perché il cuore dovesse battere e martellare in quel modo nel suo petto, dal momento che lui non aveva né ballato, né corso, né si era arrampicato su per montagne scoscese.
“Vi prego”, disse alla levatrice, “mettete la mano qui, e sentite! Mi sembra che il cuore batta in modo così strano”.
“E’ proprio batticuore”, asserì la levatrice, “forse ci andate soggetto ogni tanto?”
“No, non l’ho mai avuto prima”, assicurò Jan. “Mai in questo modo”.
“Non vi sentite bene, allora? Avete male in qualche posto?”
No, no davvero.
La levatrice non riusciva a capire che cosa gli succedesse. “Ad ogni buon conto vi prendo io la bambina”, disse.
Ma allora Jan sentì che non voleva staccarsi dalla piccina.
“No; lasciatemela tenere ancora, la bimbetta”, replicò.
E le donne dovettero leggere nei suoi occhi, o udire nella sua voce, qualcosa che le rese allegre, perché la levatrice increspò le labbra e le altre scoppiarono addirittura in una grande risata.
“Non vi era mai capitato prima di voler così bene a qualcuno da avere il batticuore per causa sua?”, chiese la levatrice.
“No”, rispose Jan.
E nello stesso istante capì cos’era stato a far battere il suo cuore. E non soltanto questo: cominciò anche a intuire cosa gli era mancato per tutta la vita. Perché chi non sente battere il cuore nel dolore o nella gioia non può di certo essere considerato un vero essere umano.

Pag 20-21 Edizione Iperborea de “L’imperatore di Portugalla” di Selma Lagerlöf


Iniziare e terminare di leggere un romanzo per riascoltare che, per poter amare da vero essere umano si ha da nascere, vivere, morire.

domenica 14 maggio 2017

Il padre e la volontà di vivere

Steinbeck in «Furore» fa dire alla figura femminile protagonista del romanzo, che interloquisce con suo marito: “Siamo più adattabili che voialtri uomini, - spiegò la mamma con dolcezza. – Noi la vita ce la portiamo sulle braccia, voialtri ve la portate dentro la testa. Non ti tormentare, chi sa … chi sa che l’anno venturo non si riesca ad avere un pezzetto di terra nostro”. E lui risponde – “Quando non si ha più niente, come farsi illusioni? Finita la stagione dei raccolti non abbiamo più lavoro. E cosa faremo? Come faremo a mangiare? Con Rosatè, ormai vicina al suo tempo. Fa paura pensare. È per questo che io vivo nel passato. Sembra che non c’è più niente davanti a noi e che la nostra vita è finita”. La mamma sorrise. – “No, babbo non è vero. Questa è un’altra cosa che le donne capiscono meglio degli uomini, me ne sono già accorta. L’uomo vive a scosse. Muore un vecchio, o nasce un bambino, sono due scosse. La donna si lascia vivere, un po' come l’acqua di un fiume: piccole anse, piccole cascate, ma l’acqua continua a scorrere. È così che noi donne vediamo la vita. Nessuno di noi muore del tutto: la gente continua, con qualche cambiamento, magari, ma continua”.
A questo punto del dialogo Steinbeck fa intervenire lo zio. Altra figura maschile estremamente simbolica nel romanzo, il quale sentenzia: - “Non si può dire, - fece zio John. – Chi gli impedisce di fermarsi un bel giorno? A forza di sentirsi stanca, un bel giorno si sdraia e si lascia morire”. *
È proprio così che questo Nobel della letteratura dimostra di conoscere il genere umano. L’ultima battuta è detta da un maschio, ed esprime con estrema crudità quello che sta dimostrando mio padre.
E come ostetrica posso confermare l’intuizione geniale di Steinbeck, aggiungendo che l’uomo detta il vivere al corpo con la testa, così che il corpo non farà che seguire la volontà. La donna, in opposto, segue con la testa ciò che le detta il corpo, e la testa si lascerà addomesticare dal corpo. È per questo che la donna sa partorire. È per questo - forse – che l’uomo sa dettare quando lasciarsi morire.
Ed è per questo che Steinbeck conclude il romanzo con una scena spettacolare che vi rimando a leggere; quale dolcezza infinita della possibilità femminile di sostenere la vita. Mentre al contrario, rozzi individui non affrontano l’argomento - di cui questo breve post - banalizzando con affermazioni quali: «Le donne ragionano con l’utero».


*Dialoghi tratti dal romanzo «Furore», di John Steinbeck 

domenica 7 maggio 2017

sabato 15 aprile 2017

venerdì 3 marzo 2017

Figlia dell'era tecnologica

Qualcuno dovrò pur ringraziare pubblicamente!
Ho da leggere fino a tardi quando fuori è buio: schiaccio un pulsante e mantengo la luce.
Ho da lavare diverse lenzuola, quando il tempo stringe: schiaccio un pulsante e avvio il programma.
Ho da sgrassare i piatti dell'altra sera: schiaccio un pulsante e parte la lavastoviglie.
Ho da frullare una quantità industriale di prezzemolo (chi l'ha comprato forse ha esagerato): schiaccio un pulsante e in un battibaleno è tutto tritato.
Ho da iniziare a caricare le valige per il viaggio e la rimessa è nel seminterrato: schiaccio un pulsante e mi raggiunge l'ascensore.
Devo uscire con la macchina dal garage: schiaccio un pulsante e si aprono i cancelli.

Ora, potrei andare avanti parecchio per indicare tutti i pulsanti che ho schiacciato dalle nove di stamattina ad adesso.
Tra l'altro non voglio omettere quelli che in questo istante, ripetutamente, vedono il mio polpastrello così da garantire lo stesso scritto che li descrive.

Con ciò: grazie perché sono nata nell'era della tecnologia!

Letture (5)


Angeli della notte
A. Joseph Cronin

giovedì 2 marzo 2017

Letture (4)


Avventure in due mondi
A. Joseph Cronin

martedì 21 febbraio 2017

Letture (3)


Le chiavi del regno
A. Joseph Cronin

sabato 4 febbraio 2017

Letture (2)


Grazia Lindsay
A. Joseph Cronin

domenica 29 gennaio 2017

Letture


Viviamo ancora
A. Joseph Cronin

sabato 28 gennaio 2017

Studiare, insegnare, fare ricerca.

28 gennaio san Tommaso d’Aquino
All’inizio dell’assemblea liturgica

O Dio, fonte di luce e di grazia, che illuminasti san Tommaso d’Aquino in modo mirabile e singolare con il carisma della tua sapienza, a quelli che sono chiamati a studiare e a insegnare concedi l’amore sincero e orante della ricerca perché possano trasmettere fedelmente agli altri la verità contemplata, a edificazione della tua Chiesa.
Per Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore e nostro Dio, che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

giovedì 5 gennaio 2017

Una sera. Un fim.

La notte poi non ho dormito, ma non per il film, per il vento. Anche se il film ha influito con una certa insistenza sui pensieri del riposo insonne. Ho così riempito con la mente, la vigilanza nel buio, indotta dai rumori torvi legati allo sbattere di finestre, fioriere, tendoni e sibili tra le fronde. La visione su grande schermo mi ha colpito perché un uomo – interprete della trama - non è stato autocelebrativo, ricordando a tutti che ciò che si riesce a fare di buono è sempre nel riconoscimento della collaborazione con un altro. Un altro che può essere il copilota, le hostess, l’equipaggio, tutti gli operatori dei servizi di emergenza… tutti coloro che collaborano all’opera che si dipana. Io mi sono anche figurata, nelle mie riflessioni notturne, che se questo altro che si riconosce compagno, ha da essere innanzitutto l’Altro con la A maiuscola, tutto ciò che è il nostro “fare” sarebbe ancora di più "grande e buona opera". Ma per ieri sera è stato sufficiente rivivere ciò che è accaduto a New York nel 2009: 155 persone si sono salvate perché a partire da chi aveva più responsabilità - fino ad arrivare a chi ne aveva sicuramente di meno - tutti hanno collaborato ad evitare una sciagura. “Meglio un ritardo che un disastro” - ad un certo punto del film legge da un bigliettino Sully - ed è proprio vero. Meglio il ritardo della reazione umana, dello spazio del libero arbitrio, che il meccanico e freddo calcolo delle tecniche compiuterizzate che asetticamente esprimono perfezione apparentemente possibile, ma ingannevole. Ingannatrice e distorta, la realtà virtuale che non tiene conto della carne e del sangue che commuovono, mette il dubbio anche a Sully di aver “fatto tutto il possibile e anche più del possibile”. Ma il grande Clint Eastwood - con la regia e produzione - governa la ripresa di un fatto reale dal capitolare sincero: il cuore dell’uomo è fatto per la verità e trova riposo solo in essa. Così dimostra l’equipaggio salvato da una sciagura, così dimostrano i cittadini newyorkesi, così esprime l’abbraccio di una albergatrice sconosciuta. Un film da vedere per chi non l’avesse già fatto… Unica pecca: perché la moglie di Sully non va immediatamente a New York per dire all’uomo che ama che lo ama abbracciandolo… e si limita ad una serie di telefonate di cui due terzi del dire sono fuori luogo? Perché la figura femminile del film è così lenta ed egoista? Domande d’obbligo, visto che mi rammarico sempre quando il mio “genere” viene impoverito nelle sceneggiature.

venerdì 2 dicembre 2016

Aprire la finestra per volare col pensiero


Ad un certo punto dello “spignattamento” è necessario aprire la valvola della pentola a pressione. È terminato il tempo di cottura e lasciare che il fischio si prolunghi rischia di spappolare il già cotto. Con ciò è necessario che il vapore non invada troppo la cucina, pertanto qual miglior modo per ottenere un duplice effetto benefico, se non quello di aprire la finestra? In primo luogo il riciclo dell’aria sarà assicurato, secondariamente il cucinato si raffredderà più velocemente e si potrà comodamente procedere con gli opportuni impasti tra ingredienti.
Ma questo gesto, apparentemente banale, stasera mi ha sorpresa.
Nel cielo del post tramonto, ancora blu per la luce non completamente scomparsa all'orizzonte, un sottile spicchio di luna brillante domina. È così luminoso che riesco a definire nella penombra in modo preciso i confini della luna nella sua rotondità. Arrivo a vedere quella metà della luna che si nasconde sempre nell'oscurità, che resta sempre nell'ombra di sé stessa.
Poco distante da questa luna da seduzione, spostando lo sguardo leggermente alla sinistra, vedo una stella, un’unica stella, che solitaria è altrettanto lucente, quasi come un frammento di quello spicchio di luna. Forse è un pianeta illuminato anch'esso dal sole. In effetti la sua luce non ha intermittenze, resta fissa e troneggia nel resto di un cielo che man mano che passano gli istanti del mio incanto, diventa sempre più scuro, più nero.
Il mio pensiero inizia a volare.
Volo con un po’ di nostalgia, nostalgia di qualcosa che mi manca, o forse meglio di qualcuno che avverto mancare.
La luna, le stelle, il cielo, hanno sempre interrogato chi si ferma a guardarli.
Credo che quello che sto subendo è un fascino che attraversa i secoli, senza mai perdere il suo ascendente.

Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l'uomo perché te ne ricordi,
il figlio dell'uomo perché te ne curi?
Salmo 8

Nox erat et caelo fulgebat luna sereno
inter minora sidera,
cum tu magnorum numen laesura deorum
in verba iurabas mea
Era notte e in un cielo limpido velato di stelle
splendeva la luna,
e tu, già offendendo in cuore il nome degli dei,
giuravi sulle mie parole
Orazio – Epodi - 15 – A Neèra

Beatrice in suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si dischiava,
giunto mi vidi ove mirabil cosa
mi torse il viso a sé; e però quella
cui non potea mia cura essere ascosa,
volta ver' me, sì lieta come bella,
«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
«che n'ha congiunti con la prima stella».
Dante – Paradiso II, 22-30

Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Leopardi – XXIII Canto notturno dl un pastore errante dell’Asia

La luna rimarrà la luna
E ci saranno sempre
Giovani che di sera
Al suo lume appartati
Si sorprenderanno
a dire le parole felici.
Anche se troppi
I satelliti artificiali
Non riusciranno mai
con le loro indiscrete apparizioni
a disturbarne l’incanto antico.

Giuseppe Ungaretti----La luna rimarrà la luna

sabato 29 ottobre 2016

Comunicare

Come tutti gli anni accade, mi ritrovo a vigilare nelle aule del polo universitario di via Golgi.
La commissione di vigilanza ha un obiettivo preciso: dare le opportune indicazioni ai candidati aspiranti l’accesso alla Laurea Magistrale, dettare i tempi per lo svolgimento del test di ammissione e controllare che non ci siano scorrettezze nello svolgimento.
Al fine di ciò la commissione d’aula stila un verbale, consegna tutto il materiale agli addetti amministrativi e si accommiata.
Il 26 ottobre c. a. la commissione cui sono stata assegnata è intima: due amministrativi e un professore ordinario. L’aula indicatami è grande, di quelle da 150 posti. I candidati invitati ad accomodarsi sono 64.
Riusciamo a distribuire maschi e femmine in modo ordinato cercando di evitare vicinanze “pericolose”; e seguendo tutte le opportune procedure diamo lo start.
Inizio a camminare tra le file e i corridoi. Non mi do tregua. Il tempo ha da passare, e oltre ad una piccola pausa caffè concessami con il professore, due ore sono lunghe a trascorrere, e girare un po’ su e giù per le scale degli spalti, non può che farmi bene.
Colgo due fanciulle che si parlano e le richiamo. Da quel momento in poi silenzio totale.
Ma non sono tranquilla.
Mi accorgo infatti, con una sorta di “meta-competenza”, che un ragazzo e una ragazza “comunicano”. Non è una comunicazione verbale e neanche gestuale è qualcosa che scorre su un canale di cui avverto presenza ma non è percepibile né con udito, né con occhio. La trasmissione non usa né il senso uditivo, né visivo: bensì cinestetico. Per coglierla dev’essersi attivato in me quel senso percettivo cui cerco di educare le mie studentesse quale: “proprio dell’essere ostetrica”.
Continuo a scrutare i due fanciulli, quasi in modo ossessivo, ma non riesco a trovare un “atto” sospetto oggettivabile che li “inchiodi”. Sono seduti su file diverse, la femmina è davanti al maschio e tra loro hanno un contatto che sfrutta – per me che li guardo - la diagonale da destra verso sinistra, a partire dalla femmina, diretto verso il maschio.
Non mi dimentico di tenere d’occhio tutta l’aula, ma insistendo con lo sguardo sui due soggetti “sospetti”, ad un tratto noto una somiglianza somatica. Mi viene l’intuizione di potermi trovare davanti a due “gemelli”. Di fatto, per professionalità, se dovessi quantizzare la capacità comunicativa di questi soggetti, direi che i “gemelli” sono speciali; vivono i nove mesi gestazionali a stretto contatto, immersi negli stessi “sapori”, tanto da essere educati come potrebbero fare trent’anni di amicizia post natale!
Scendo alla cattedra dove è restata seduta una delle colleghe amministrative e chiedo se tra i convenuti registrati ce ne sono due con lo stesso cognome: bingo! Ho sbagliato di poco, la ragazza e il ragazzo sono sorella e fratello con circa due anni d’età di differenza a vantaggio della femmina.
Faccio presente al resto della commissione di tenere d’occhio i due fratelli, ma resta a tutti veramente difficile “sintonizzarsi sulle loro frequenze”. Il tempo scorre e si avvicina l’ultimo quarto d’ora in cui non si può più consegnare il test volontariamente. Ora tutti i rimanenti devono aspettare la fine del tempo previsto.
Finisce la prova e inizia il “ritiro d’ufficio”. Lei e lui hanno finito di stilare il compito e attendono restando nel loro banco. Non perdo l’occasione per essere io ad avvicinarmi loro e chiedere: “Avete imparato fin da piccoli a comunicare usando un alfabeto tutto vostro?”. Diventano entrambi rossi nel volto, e mi sorridono. Non parlano, la sorella si limita a farmi un gesto: si tocca il volto comprendendo la radice del naso e la bocca. Stupendo! Comunica ancora una volta sfruttando il canale cinestetico: il tatto, e la possibilità della percezione d’olfatto e di gusto di un “fluido”, quale potrebbe essere per un profumo e un cibo.
Sorrido e a mia volta riprendo con la voce - anche se hanno già compreso cosa è successo - li ho colti, ma ci tengo a dire cosa me lo ha permesso: “Mi sono accorta che comunicavate perché sono un’ostetrica, e tra voi è come presente un cordone ombelicale, che si ‹percepisce› fortissimo, ma non sono riuscita a incastrarvi!”
Mi allontano e alle mie spalle sento il fratello che sussurra alla sorella: “Come ha fatto ad accorgersi?” E lei risponde: “È un’ostetrica”.
Posso concludere l’esperienza: quest’anno è stata una “vigilanza” interessante. Ho dato esercizio a qualcosa che tutti sperimentiamo, anche se spesso non ci diamo il giusto peso: il valore di sfiorare; di inviare un messaggio aromatico.