Di nuovo si trovò a confrontarsi di
colpo con la propria incredibile ignoranza dell’indole di Alexa. Il fatto di
sapere abbastanza bene come si sarebbe comportata nelle normali contingenze
della vita, e di poter contare in tali occasioni sul grande coraggio e la
franchezza che aveva sempre presagito in lei, lo rendeva ancora più sfiduciato
sulla sua capacità di penetrare nella tortuosa psicologia di un gesto che egli
stesso non riusciva più a spiegare o capire. Sarebbe stato più facile che Alexa
fosse stata più complicata, più femminile – se lui avesse potuto contare sulla
sua comprensione immaginativa o sulla sua ottusità morale – ma non era sicuro
di nessuna delle due cose. Non era sicuro di niente, tranne che, per un certo
tempo, doveva evitarla. Non riusciva a liberarsi dall’illusione che di lì a
poco il suo atto avrebbe cessato di fare sentire le proprie conseguenze.
…
Il grido della moglie lo sorprese. «Non
ti ha dato me … ti ha dato te
stesso». Si protese verso di lui come spinta da un’onta di pietà. «Non vedi?»
proseguì mentre lui continuava a guardarla: «che questo è il dono a cui non
puoi fuggire, il debito che sei costretto a saldare? Non vedi che prima non eri
mai stato l’uomo che lei pensava tu fossi, mentre ora ti ha trasformato, in
modo meraviglioso, nell’uomo che amava? Per una donna, vale la pena soffrire
per una cosa simile, di morirci … questo
è il dono che avrebbe desiderato farti!»
«Ah», gridò lui, «guai all’uomo per colpa del quale ciò avviene. E
io, che cosa le ho dato io?»
«La felicità di dare», disse Alexa.
Edith
Wharton. La pietra di paragone, pag. 84-85 e 134. La Tartaruga edizioni
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