giovedì 5 gennaio 2017

Una sera. Un fim.

La notte poi non ho dormito, ma non per il film, per il vento. Anche se il film ha influito con una certa insistenza sui pensieri del riposo insonne. Ho così riempito con la mente, la vigilanza nel buio, indotta dai rumori torvi legati allo sbattere di finestre, fioriere, tendoni e sibili tra le fronde. La visione su grande schermo mi ha colpito perché un uomo – interprete della trama - non è stato autocelebrativo, ricordando a tutti che ciò che si riesce a fare di buono è sempre nel riconoscimento della collaborazione con un altro. Un altro che può essere il copilota, le hostess, l’equipaggio, tutti gli operatori dei servizi di emergenza… tutti coloro che collaborano all’opera che si dipana. Io mi sono anche figurata, nelle mie riflessioni notturne, che se questo altro che si riconosce compagno, ha da essere innanzitutto l’Altro con la A maiuscola, tutto ciò che è il nostro “fare” sarebbe ancora di più "grande e buona opera". Ma per ieri sera è stato sufficiente rivivere ciò che è accaduto a New York nel 2009: 155 persone si sono salvate perché a partire da chi aveva più responsabilità - fino ad arrivare a chi ne aveva sicuramente di meno - tutti hanno collaborato ad evitare una sciagura. “Meglio un ritardo che un disastro” - ad un certo punto del film legge da un bigliettino Sully - ed è proprio vero. Meglio il ritardo della reazione umana, dello spazio del libero arbitrio, che il meccanico e freddo calcolo delle tecniche compiuterizzate che asetticamente esprimono perfezione apparentemente possibile, ma ingannevole. Ingannatrice e distorta, la realtà virtuale che non tiene conto della carne e del sangue che commuovono, mette il dubbio anche a Sully di aver “fatto tutto il possibile e anche più del possibile”. Ma il grande Clint Eastwood - con la regia e produzione - governa la ripresa di un fatto reale dal capitolare sincero: il cuore dell’uomo è fatto per la verità e trova riposo solo in essa. Così dimostra l’equipaggio salvato da una sciagura, così dimostrano i cittadini newyorkesi, così esprime l’abbraccio di una albergatrice sconosciuta. Un film da vedere per chi non l’avesse già fatto… Unica pecca: perché la moglie di Sully non va immediatamente a New York per dire all’uomo che ama che lo ama abbracciandolo… e si limita ad una serie di telefonate di cui due terzi del dire sono fuori luogo? Perché la figura femminile del film è così lenta ed egoista? Domande d’obbligo, visto che mi rammarico sempre quando il mio “genere” viene impoverito nelle sceneggiature.

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