venerdì 2 dicembre 2016

Aprire la finestra per volare col pensiero


Ad un certo punto dello “spignattamento” è necessario aprire la valvola della pentola a pressione. È terminato il tempo di cottura e lasciare che il fischio si prolunghi rischia di spappolare il già cotto. Con ciò è necessario che il vapore non invada troppo la cucina, pertanto qual miglior modo per ottenere un duplice effetto benefico, se non quello di aprire la finestra? In primo luogo il riciclo dell’aria sarà assicurato, secondariamente il cucinato si raffredderà più velocemente e si potrà comodamente procedere con gli opportuni impasti tra ingredienti.
Ma questo gesto, apparentemente banale, stasera mi ha sorpresa.
Nel cielo del post tramonto, ancora blu per la luce non completamente scomparsa all'orizzonte, un sottile spicchio di luna brillante domina. È così luminoso che riesco a definire nella penombra in modo preciso i confini della luna nella sua rotondità. Arrivo a vedere quella metà della luna che si nasconde sempre nell'oscurità, che resta sempre nell'ombra di sé stessa.
Poco distante da questa luna da seduzione, spostando lo sguardo leggermente alla sinistra, vedo una stella, un’unica stella, che solitaria è altrettanto lucente, quasi come un frammento di quello spicchio di luna. Forse è un pianeta illuminato anch'esso dal sole. In effetti la sua luce non ha intermittenze, resta fissa e troneggia nel resto di un cielo che man mano che passano gli istanti del mio incanto, diventa sempre più scuro, più nero.
Il mio pensiero inizia a volare.
Volo con un po’ di nostalgia, nostalgia di qualcosa che mi manca, o forse meglio di qualcuno che avverto mancare.
La luna, le stelle, il cielo, hanno sempre interrogato chi si ferma a guardarli.
Credo che quello che sto subendo è un fascino che attraversa i secoli, senza mai perdere il suo ascendente.

Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l'uomo perché te ne ricordi,
il figlio dell'uomo perché te ne curi?
Salmo 8

Nox erat et caelo fulgebat luna sereno
inter minora sidera,
cum tu magnorum numen laesura deorum
in verba iurabas mea
Era notte e in un cielo limpido velato di stelle
splendeva la luna,
e tu, già offendendo in cuore il nome degli dei,
giuravi sulle mie parole
Orazio – Epodi - 15 – A Neèra

Beatrice in suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si dischiava,
giunto mi vidi ove mirabil cosa
mi torse il viso a sé; e però quella
cui non potea mia cura essere ascosa,
volta ver' me, sì lieta come bella,
«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
«che n'ha congiunti con la prima stella».
Dante – Paradiso II, 22-30

Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Leopardi – XXIII Canto notturno dl un pastore errante dell’Asia

La luna rimarrà la luna
E ci saranno sempre
Giovani che di sera
Al suo lume appartati
Si sorprenderanno
a dire le parole felici.
Anche se troppi
I satelliti artificiali
Non riusciranno mai
con le loro indiscrete apparizioni
a disturbarne l’incanto antico.

Giuseppe Ungaretti----La luna rimarrà la luna

sabato 29 ottobre 2016

Comunicare

Come tutti gli anni accade, mi ritrovo a vigilare nelle aule del polo universitario di via Golgi.
La commissione di vigilanza ha un obiettivo preciso: dare le opportune indicazioni ai candidati aspiranti l’accesso alla Laurea Magistrale, dettare i tempi per lo svolgimento del test di ammissione e controllare che non ci siano scorrettezze nello svolgimento.
Al fine di ciò la commissione d’aula stila un verbale, consegna tutto il materiale agli addetti amministrativi e si accommiata.
Il 26 ottobre c. a. la commissione cui sono stata assegnata è intima: due amministrativi e un professore ordinario. L’aula indicatami è grande, di quelle da 150 posti. I candidati invitati ad accomodarsi sono 64.
Riusciamo a distribuire maschi e femmine in modo ordinato cercando di evitare vicinanze “pericolose”; e seguendo tutte le opportune procedure diamo lo start.
Inizio a camminare tra le file e i corridoi. Non mi do tregua. Il tempo ha da passare, e oltre ad una piccola pausa caffè concessami con il professore, due ore sono lunghe a trascorrere, e girare un po’ su e giù per le scale degli spalti, non può che farmi bene.
Colgo due fanciulle che si parlano e le richiamo. Da quel momento in poi silenzio totale.
Ma non sono tranquilla.
Mi accorgo infatti, con una sorta di “meta-competenza”, che un ragazzo e una ragazza “comunicano”. Non è una comunicazione verbale e neanche gestuale è qualcosa che scorre su un canale di cui avverto presenza ma non è percepibile né con udito, né con occhio. La trasmissione non usa né il senso uditivo, né visivo: bensì cinestetico. Per coglierla dev’essersi attivato in me quel senso percettivo cui cerco di educare le mie studentesse quale: “proprio dell’essere ostetrica”.
Continuo a scrutare i due fanciulli, quasi in modo ossessivo, ma non riesco a trovare un “atto” sospetto oggettivabile che li “inchiodi”. Sono seduti su file diverse, la femmina è davanti al maschio e tra loro hanno un contatto che sfrutta – per me che li guardo - la diagonale da destra verso sinistra, a partire dalla femmina, diretto verso il maschio.
Non mi dimentico di tenere d’occhio tutta l’aula, ma insistendo con lo sguardo sui due soggetti “sospetti”, ad un tratto noto una somiglianza somatica. Mi viene l’intuizione di potermi trovare davanti a due “gemelli”. Di fatto, per professionalità, se dovessi quantizzare la capacità comunicativa di questi soggetti, direi che i “gemelli” sono speciali; vivono i nove mesi gestazionali a stretto contatto, immersi negli stessi “sapori”, tanto da essere educati come potrebbero fare trent’anni di amicizia post natale!
Scendo alla cattedra dove è restata seduta una delle colleghe amministrative e chiedo se tra i convenuti registrati ce ne sono due con lo stesso cognome: bingo! Ho sbagliato di poco, la ragazza e il ragazzo sono sorella e fratello con circa due anni d’età di differenza a vantaggio della femmina.
Faccio presente al resto della commissione di tenere d’occhio i due fratelli, ma resta a tutti veramente difficile “sintonizzarsi sulle loro frequenze”. Il tempo scorre e si avvicina l’ultimo quarto d’ora in cui non si può più consegnare il test volontariamente. Ora tutti i rimanenti devono aspettare la fine del tempo previsto.
Finisce la prova e inizia il “ritiro d’ufficio”. Lei e lui hanno finito di stilare il compito e attendono restando nel loro banco. Non perdo l’occasione per essere io ad avvicinarmi loro e chiedere: “Avete imparato fin da piccoli a comunicare usando un alfabeto tutto vostro?”. Diventano entrambi rossi nel volto, e mi sorridono. Non parlano, la sorella si limita a farmi un gesto: si tocca il volto comprendendo la radice del naso e la bocca. Stupendo! Comunica ancora una volta sfruttando il canale cinestetico: il tatto, e la possibilità della percezione d’olfatto e di gusto di un “fluido”, quale potrebbe essere per un profumo e un cibo.
Sorrido e a mia volta riprendo con la voce - anche se hanno già compreso cosa è successo - li ho colti, ma ci tengo a dire cosa me lo ha permesso: “Mi sono accorta che comunicavate perché sono un’ostetrica, e tra voi è come presente un cordone ombelicale, che si ‹percepisce› fortissimo, ma non sono riuscita a incastrarvi!”
Mi allontano e alle mie spalle sento il fratello che sussurra alla sorella: “Come ha fatto ad accorgersi?” E lei risponde: “È un’ostetrica”.
Posso concludere l’esperienza: quest’anno è stata una “vigilanza” interessante. Ho dato esercizio a qualcosa che tutti sperimentiamo, anche se spesso non ci diamo il giusto peso: il valore di sfiorare; di inviare un messaggio aromatico.

sabato 17 settembre 2016

Voler bene (2)

Maria, medico geriatra, ieri è andata a fare una visita domiciliare per valutare la possibile attribuzione di invalidità ad un ultranovantenne. È accaduto al mattino pertanto alla sera ha potuto raccontare come si sono svolte le cose.
Arrivata in una umile casa di povero quartiere della periferia milanese, Maria è accolta da una coppia di coniugi canuti, con una figlia in loro compagnia. Il soggetto della visita è un uomo reduce da vent'anni di lavoro come “spacca-pietre” in Germania, rientrato in Italia per lavorare altri venticinque anni per le Ferrovie dello Stato come “lava-carrozze”, si chiama Angelo. La moglie Anna lo osserva con sguardo amorevole, la figlia vigila per l’occasione sui genitori.
Angelo si rivela subito impegnativo. Tremolante, seduto tutto curvo su di una poltrona governata da sistemi telecomandati, fa fatica ad articolare la voce, ma saluta con rispetto. Per la visita c’è da invitarlo a cambiare stanza, così si ha modo di constatare che l’alzarsi richiede un certo tempo ed impegno e resta indispensabile il deambulatore che viene spinto a fatica. Raggiunta la camera da letto, si procede con una visita di individuazione di disfunzioni organiche, non solo legate alla longeva età, bensì legate al fatto che è ormai conclamato un morbo di Parkinson. La figlia vorrebbe intromettersi per aiutare il padre, ma fa parte della visita riuscire a comprendere il livello dei deficit, per cui il soggetto delle cure non va sostituito.
Ora si torna in cucina-salotto perché la seconda parte della visita prevede di somministrare alcuni test attitudinali che classificano i possibili decadimenti cognitivi.
Tutto procede lentamente, come ci si aspetta che possa procedere in un soggetto di cui la compromissione del corpo gravemente scoliotico, quasi sicuramente sfocerà in una invalidità riconosciuta.
Manca l’ultimo step della visita. Maria chiede ad Angelo: “Scriva una frase per favore”, porgendo all’anziano un foglio e una penna.
Silenzio. Lungo silenzio. Tempo. Molto tempo.
Interviene la figlia: “Dottoressa guardi che mio padre è tantissimo tempo che non lo vedo scrivere, lasci stare…”
Maria: “Non si preoccupi. Diamo tempo”.
Maria, guardando lo sguardo presente di Angelo sul foglio, ha capito che ci sarà sufficiente energia per comandare una mano come si conviene. Ci vuole solo tempo. Il tempo darà la possibilità di ordinare i processi.
Finalmente Angelo comincia a scrivere, con un tratto appena appena decifrabile ma chiaramente interpretabile: “Anna ti volio bene”.

Spettacolo! Ecco una sfumatura del voler bene: un tempo che governato dalla commozione, lascia emergere il profondo che scalda il cuore e giustifica il nostro limite, anche di grafia. 

mercoledì 14 settembre 2016

Voler bene

Cosa vuol dire voler bene? Me lo chiedo spesso e tutte le volte che me lo domando penso che spiegare cosa vuol dire “voler bene” sia una delle cose più difficili della vita.
È difficile dire di cosa si tratta per diversi motivi, tra i quali, a mio parere, c’è quello di pensare che dobbiamo descrivere una realtà di cui siamo capaci e il confondere il “voler bene” con un sentimento passeggero.
Di fatto credo fermamente che il bene sia innanzitutto un balsamo di cui siamo riceventi, e che nel momento in cui è vero, è un per sempre ineludibile.
Da non dimenticare è poi che ciò di cui si fa esperienza, non sempre è riducibile a poche fredde parole. Per descrivere alcune perle della vita sarebbe necessaria calda poesia … e ben sappiamo, che non sempre “siamo capaci” d’arte di lemmi.
Oggi, ancora una volta, mi sono posta il difficile quesito, ma sono stata fortunata.
Non ho avuto il tempo di arrovellarmi in intricati pensieri, perché ho lasciato che lo sguardo si fermasse ad osservare un bambino che stava seduto al fianco del suo papà, durante il tragitto metropolitano che mi separa dal centro città alla periferia di casa.
Il bambino giocava con una spada. Uno di quei giocattoli di plastica che sembrano veri. Durante le “sciabolate”, trattenute con giusto limite, continuava a chiamare il papà, che pazientemente, ad ogni richiamo, prestava l’attenzione. Ad un tratto, come tutti i giochi e l’uso di giocattolo, anche la bella spada ha stancato il bambino, che prontamente nel suo papà ha trovato una soluzione di custodia. Il mite papà ha preso la spada e l’ha infilata nella cinghia superiore dello zainetto. Quella cinghia a forma di maniglia che normalmente ci permette di prendere lo zaino mantenendolo verticale. Così è stata trovata una guaina al giocattolo, che da quel momento in poi è restato sul pavimento, serrato tra i piedi del papà.
Ora il bambino, con le mani libere, ha iniziato ad essere affettuoso con un babbo che lo richiamava ad un ordine di gesti quali: il provocare solletico nei limiti del contenibile, il bisogno di mantenere la maglia senza eccesso di “sgualcimenti”, l’agitarsi entro il raggio che non mettesse a rischio di caduta.
Contemporaneamente ai richiami verbali, sempre molto contenuti, il babbo teneva una mano in modo tale da prevedere possibili movimenti imprevedibili del figlio, mentre l’altra mano assecondava il nuovo gioco: trastullarsi con la sensibilità e l’agilità del corpo.
Il mio sguardo non si è stancato di guardare la scena e arrivati al capolinea il padre del “guerriero ginnasta” mi ha dato lo spazio di un sorriso per salutarlo con una parola pronunciata in apprezzamento alla vivacità del figlio: “Stupendo!”
“Stupendo” anche perché dandomi le spalle, mostrava uno zainetto insolitamente ornato da un “oggetto fendente,dolcemente ciondolante”.
In realtà il profondo del mio dire “stupendo” è stato anche perché lo spettacolo ha coinciso con uno di quei momenti in cui mi pare di intuire cosa possa essere il “voler bene”.
Voler bene è legato al lasciarsi disarmare. Lasciare che l’altro vinca la nostra difesa. Cercare l’altro che sappiamo essere presente anche per rispondere al nostro richiamo, al nostro bisogno di attenzione, alla necessità di essere voluti.
Voler bene è accettare il limite del non esser esagerati, dell’essere contenuti in un ordine, in un rispetto, in una gestualità che tiene conto della reciprocità. Che sa cogliere quando è possibile sospendere e riprendere, per confermare sia nella sospensione che nella ripresa di essere presenti all’altro.
Voler bene è dare spettacolo di bellezza. È adornarsi di armonia aromatica d’olio prezioso.

sabato 3 settembre 2016

Dialoghi e silenzio

Mi trovo in coda, ad aspettare il mio turno per fare un biglietto acquisto panini.
Sono ad una di quelle cene organizzate per la beneficienza.
Davanti a me due uomini.
Dietro di me due donne.
Sia i due uomini che le due donne si conoscono tra loro, infatti entrambe le coppie gemellate per genere, discorrono animatamente.
Inizialmente non ho voglia di ascoltare e soprattutto desidero stare in silenzio. La giornata è stata sufficientemente stancante e il rientro dalle vacanze è stato abbastanza sconvolgente. Solo il silenzio può darmi una mano a superare lo shock dell’addio alle montagne, dell’addio alla conquista di una vetta, dell’addio al refrigerio, dell’addio a ciò che è silenzio senza doverlo “fare”.
Stando in coda, il tempo dell’attesa si prolunga, si prolunga esageratamente e l’attenzione inizia a spostarsi in alternanza ai due colloqui concitati l’uno della coppia che mi precede e l’altro della coppia che mi segue. Inizio ad ascoltare interrogandomi: di che cosa stanno parlando così vivacemente due uomini e di che cosa stanno parlando così animosamente due donne?
Rispetto ai due uomini mi viene un sospetto, facilmente gli uomini parlano di lavoro, di donne o di calcio. Lascio così che l’orecchio oda e confermo la mia ipotesi: i due soggetti sono in disputa sull’ultima partita di calcio giocata dai loro figli e sul motivo più o meno condiviso per essere ricorsi ad un rigore.
Rispetto alle due donne la previsione è più complessa. Le donne - se madri - parlano facilmente dei figli, ma spesso i dialoghi che pensi siano attribuibili a problemi di bambini, scopri solo con il loro procedere, che sono per esigenze di canidi. Comunque sia le donne parlano più spesso degli uomini e forse per questo i loro argomenti spaziano e sono meno prevedibili. Possono parlare di distrazioni, di cucina, di palestra, di vestiti, di acquisti, di arredo, insomma di tutto, di un po’, di nulla. Ascolto pertanto senza supposizioni.
È qui che resto stupita del fatto che il dialogo è su argomenti che tratto per il mio lavoro: gravidanza, amniocentesi e villocentesi. Le due signore si confrontano per l’aver fatto la diagnosi prenatale nei confronti del loro nascituro, con estrema disinvoltura.

Ok, ho capito perché quando non sono al lavoro, preferisco ascoltare gli uomini, e in questo caso capisco perché ho preferito ritrovare il silenzio.

sabato 30 luglio 2016

Ti insegno un trucco per conoscere lo stile di una donna.


Devi avere un po’ di tempo a disposizione.
Vai al supermercato e mettiti in modo tale da osservare il punto casse.
Ora guarda le acquirenti che di volta in volta arrivano, come hanno caricato il carrello e cosa succede al momento del pagamento.

Primo caso. C’è la donna che arriva a tutta velocità. Il carrello ha dentro poche cose e disposte disordinatamente. In particolare ti accorgerai che la frutta e l’insalata sono state messe sotto alle mozzarelle e ai bicchierini dello yogurt. Raggiunto il tapirulan lo lascia scorrere vuoto per diverso tempo e solo al sospiro della donna che segue nella coda, farà in modo che gli alimenti siano disposti chi prima e chi dopo, senza far caso al fatto che potrebbero essere dritti o capovolti. Al momento di pagare, dopo che gli acquisti si sono accumulati nello spazio post check, chiederà alla cassiera di venderle un sacchetto.
La donna in oggetto è impetuosa, un po’ frettolosa e distratta. Probabilmente si dimenticherà di prendere qualcosa che a casa le manca.

Secondo caso. C’è la donna che arriva lentamente, guardinga, cercando di individuare la cassa che ha la coda più breve. Il carrello ha dentro molte cose e disposte ordinatamente. In particolare ti accorgerai che i detersivi, i barattoli e le conserve sono tutte sotto, insieme all’acqua e alle bibite. La frutta e la verdura restano in superficie. Le uova sono appoggiate sul seggiolino per il bebè, che altrimenti resterebbe vuoto e chiuso.  Raggiunto il tapirulan, cerca il segnaposto e immediatamente lo colloca. Inizia subito a disporre gli alimenti con ordine meticoloso. Stando ad osservare con attenzione noterai che dispone ciascuna cosa tenendo conto degli oggetti uguali tra loro, del peso e del genere. Infatti ciò che è da conservare in frigorifero sarà lontano da ciò che può essere conservato in dispensa. I diversi acquisti saranno appoggiati tutti nel senso dello stare retti. Chiuderà lo spazio dei suoi "generi" con un secondo segnaposto. Post check, avrà pronti i suoi numerosi sacchetti riciclati, che riempirà con diligente cura. Le uova saranno appoggiate nel sacchetto “frigor”, rigorosamente per ultime.
Sei davanti ad una donna precisa, forse un po’pignola, che impegna il tempo con scrupolo e per non dimenticare nulla si sarà fatta anche una lista spesa, che avrà di volta in volta spuntato.

Terzo caso. Vedi un carrello in coda, con dentro delle cose più o meno minute. Nessuno lo custodisce in modo continuo. A tratti appare una donna che lancia al suo interno oggetti raccolti tra le diverse corsie, secondo l’ordine dello scaffale su cui erano posti. Ogni volta che torna tiene d’occhio come avanza la coda e se chi le sta dietro ha fatto avanzare il “suo” carrello, senza superarlo. Non deve comprare molte cose, e spesso usa il carrellino, non il carrello. E’ nella fila dei “dieci pezzi”, ma al suo turno di check inevitabilmente la cassiera le deve far notare che i pezzi sono 11 o 12 … non importa, ormai ha già in mano il bancomat per pagare e nessuno la fermerà.
Sei davanti ad una donna opportunista, forse un po’ egoista, che vive di una furbizia propria a discapito della pazienza degli altri.

Ora, è evidente che tre casi non possono riassumere le infinite sfumature di modi di fare che collegano uno dei tre stili con l’altro, ma è tutto vero e ti invito a farci caso e a meditarci su.

Quale stile ti corrisponde? 

domenica 3 luglio 2016

Ho portato la sposa


Se venticinque anni fa mi avessero anticipato cosa avrei fatto il venticinque giugno di quest’anno, avrei confermato che avrei voluto viverlo!
Svegliarmi di sabato mattina alle sei e trenta, attaccare fiocchi agli specchietti, e il cartello “io porto la sposa” sul vetro del bagagliaio;
avviarmi, tra gli sguardi curiosi di una Milano per buona parte ancora addormentata, verso Monza San Fruttuoso;
accettare che chi guarda nell’abitacolo del veicolo resti un po’ deluso, dal non trovare nessuno oltre l’autista;
incontrare nel cortile della casa un uomo che va a “fare” manicure e sopracciglia, e abbracciandomi mi dice: sarà una tortura;
entrare in appartamento per incontrare la migliore amica che ho, per scoprire che ha lottato buona parte della notte con una valigia che dovrà pesare massimo venti chili;
dirigermi da parrucchiere e truccatore, finalmente con la sposa a bordo;
lasciare che al semaforo qualcuno abbozzi un sorriso o un discorso, anche se la sposa vuole sfuggire alle congratulazioni;
godere di avere nei capelli i “fiori della sposa”;
correre a tutta velocità per lasciare la macchina nel parcheggio sotterraneo del centro, così da aver modo di arrivare per tempo;
restare spettatrice della gioia di un’amica;
commuovermi negli abbracci;
partecipare al volersi bene;
rimanere sola;
perdermi nella campagna brianzola;
condizionare ritardo alla cucina;
condividere la festa;
tentare di fare una presentazione di foto, nonostante i problemi tecnici da assetto tecnologico allestito all’aperto;
sintonizzare l’impianto audio sulla musica preferita dalla sposa, bypassando la playlist dell’agriturismo;
lasciare che tutti tornino a casa, per restare con gli sposi;
accompagnare al “nido” gli sposini, con una Panda carica di fiori;
sostituire il cartello sul vetro del bagagliaio, per dichiarare: “io oggi ho portato la sposa”;
assistere alla gioia incontenibile dei bambini, che incontrandomi in tangenziale comprendono la bellezza di una macchina “addobbata”;
abbandonare qualche lacrima di gioia;
regalare alla Madonna il cuscino di rose e gladioli;
raccontare alla sera di essere contenta;
guardare la luna che chiude un giorno speciale;
ringraziare il Mistero, grande e buono nell’amore.


giovedì 9 giugno 2016

Piove dopo le 17

Forse piove dopo le 17 perché prima delle 17 ero in centro città e dopo le 17 sono arrivata nella periferia del west. Si sa, le perturbazioni sono localizzate.
Forse piove dopo le 17 perché ieri sera guardavo 17 uomini vestiti scuro, ridenti, di cui buona parte oggi avrebbe trascorso la giornata fino alle 17 con più di cento bambini al seguito. Lo so, San Giuseppe è influente sul tempo e sicuramente è favorevole con chi è stato scelto come lui da Dio.
Forse piove dopo le 17 perché è stato per quell’ora che sono uscita dal lavoro. Si sa, sembra incredibile ma l’acquazzone sopraggiunge spesso nei momenti in cui sei vulnerabile.
Forse piove dopo le 17 perché a quell’ora ero così affamata che solo eventi atmosferici come la pioggia o la neve avrebbero potuto sedarmi. Lo so, quando sento il profumo della pioggia riesco a frenare tutte le altre cose che sento: anche i brontolii di stomaco.  
Forse piove dopo le 17 perché a quell’ora buona parte delle persone erano già arrivate a casa dopo la fatica della giornata. Si sa, è più bello ascoltare il ticchettio della pioggia sotto un tetto e magari comodamente seduti su un divano.
Forse piove dopo le 17 perché è a quell’ora che io godo particolarmente del cielo. Lo so, guardare le luci che sfumano verso la sera mi riempie di santa nostalgia.
Forse piove dopo le 17 perché la pioggia ha deciso di cadere dopo le 17. Si sa, le nuvole vanno e vengono come vogliono.
Forse piove dopo le 17 perché solo dopo le 17 avrei trovato il tempo di descrivere quello che è successo. Lo so, mi piace raccontare quello che si tratteggia nella memoria.

martedì 26 aprile 2016

Il mistero ha un grande senso dell'umorismo

La mamma si è messa in mente di mettere a posto qualche cassetto dimenticato.
Non so se l’ispirazione le è venuta dal fatto che è ormai prossimo il festeggiamento del suo sessantesimo di matrimonio, e il desiderio è di fare un po’ d’ordine nei pensieri e nelle cose; oppure se è stata una illuminazione dall’alto, per stupirci.
Sta di fatto che facendo ciò è affiorato dal lontano 1955 un biglietto, che lei ha recapitato al papà dopo quattro anni di fidanzamento, ad un anno dal matrimonio ormai concordato.
Dopo qualche istante dal ritrovamento, ha deciso di farmi partecipare al recupero della “reliquia”, e mi ha concesso lettura del contenuto.
Con la sua voce a tutt’oggi emozionata, mi ha scandito le lettere, rendendole parola dopo parola, brevi frasi concise.
Mi sono commossa.
Anche qui un’incertezza mi assale: non so se il mio coinvolgimento è stato destato dalla prudenza amorosa trapelante dal tratto contenuto dello scritto materno, oppure se la partecipazione è stata per un modo di comunicare che riconosco anche mio, e mi assimila a lei.
Amo scrivere le cose importanti, o meglio, le cose che ritengo importanti.
Uno scritto è per sempre, e sono persuasa che dovremmo avere più coraggio nello scrivere, perché dovremmo avere più fiducia nell’eterno.
Sono grata del fatto accaduto, e mi sento confermata in un modo d’espressione d’essere.

E’ troppo bello poter rinnovare il dirsi, di ciò che è vero.

lunedì 25 aprile 2016

In conclusione di una lettura

“Secondo una certa filosofia, il luogo delle origini sarebbe vuoto: i filosofi, come fanno a saperlo? Comunque sia, la comune esperienza umana dice che, sulla strada verso le origini, troviamo una donna che ci ha messo al mondo e che, come insegnava lo psicanalista dell’Hôtel Dieu, ci ha amato di un amore sufficiente. Ma c’è anche un prima di lei, naturalmente”.

Luisa Muraro
L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto

pag 73

domenica 17 aprile 2016

Letture


"Sull’adozione. Noi viviamo in paesi dove la materia vivente, come il sangue e organi, non si compravende, si dona, e dove bambine e bambini non vanno messi in vendita né si comprano. Abbiamo presenti gli effetti deteriori della commercializzazione del sangue e degli organi, praticata in paesi meno civili dei nostri, e ci è stato spiegato perché sia doveroso passare per l’adozione e a norma di legge. Come mai, dunque, ci troviamo a discutere sulla leicità del farsi fare delle creature umane a pagamento, come fosse un problema mai affrontato prima, sul quale non esistono criteri di giudizio? Perché questa disparità di giudizio e di sensibilità nella testa delle medesime persone?"
Pag 12

giovedì 31 marzo 2016

Parafrasi della vita

Da che sono cosciente, mi rendo conto di riposare quando riesco a tornare in luoghi che mi sono famigliari.
Non è solo il fatto di conoscerli che mi distende, bensì mi ristora il significato che portano.
Sono convinta che la vita sia data per conoscere a fondo se stessi, le persone e le cose che sono date di incontrare; così alcune località e particolari, possono sostenere questa intenzione.
Andare per un sentiero, anticipando consapevolmente i percorsi di maggior difficoltà, così da mettermi nelle condizioni di passo e respiro per poterli affrontare;
raggiungere aree di risposta alla sete, intenzionalmente;
guardare con affetto un rudere, così come vorrei fare con tutto quello che lascio in sospeso;
stupirmi della bellezza del dato gratuito, contemplando un panorama incantevole;
riconoscere che tanti particolari del percorso sono cambiati, da che li ho guardati l’ultima volta;
godere del silenzio della neve, che protegge dal gelo il terreno;
raccogliermi nel calore della giacca con cui mi posso rivestire, nel momento in cui la nuvola assorbe il sole e il vento fa la sua parte;
esistere nei passi fatti insieme agli amici che amo.
Come si fa a non collegare tutto ciò ad una parafrasi del vivere?
Per cui, il mio augurio - a chiunque - è di avere nel cuore un luogo così:
raggiungibile fisicamente;
attuale nella memoria;
fissato nel sogno.

Buon cammino!

lunedì 28 marzo 2016

sabato 26 marzo 2016

sabato 19 marzo 2016

Ora

Per esistere è bastato essere voluti;
per essere certi del cielo, a volte basta guardare oltre il terso;
per fare un pellegrinaggio, a volte basta attraversare una piazza;
per definire il perdono, a volte basta oltrepassare una porta;
per continuare a sperare, a volte basta sapere che si può ricominciare;
per vivere l’attesa, a volte basta ricordare che esiste chi si ama;
per essere felici, a volte basta ricordare un abbraccio;
per esprimere quello che non si riesce a pronunciare, a volte basta un sorriso;
per esternare il bene, a volte basta una carezza;
per dire il necessario, a volte basta sapere di poter tornare a ripetere;
per riposare, a volte basta programmare una partenza;
per non perdere il presente, a volte basta vivere il silenzio;
per fissare la bellezza, a volte basta scrivere un pensiero;

per vivere c’è da essere.

giovedì 25 febbraio 2016

Lezione di vita

Trentasei bambini di quinta elementare in un’unica aula.
Mi presento e si presentano dicendo ad alta voce il nome.
Sono due terzi femmine e un terzo maschi.
Apparentemente italiani tranne tre. Si evidenzia una fanciulla che porta il chador, che direi essere egiziana, una con carnagione scura e minuta, che ha tutta l’aria di essere dello Sri Lanka, infine un maschio, che ha un nome slavo.
Il quartiere in cui siamo è notoriamente malfamato, in cui si affastellano alte case popolari in cemento armato. Senza decorazioni. Con tante antenne paraboliche. Senza portineria o ascensore. Abitato da “povera gente”, non solo nel senso economico del termine, bensì per la scarsa opportunità di godere “dell’armonia”.
Eppure, questi bambini mi hanno stupita con domande fattemi avere qualche giorno fa, in previsione di incontrarci…
Ma chi ci ha creati, cioè chi ci ha fatti nascere?
Come si sviluppa il nostro corpo?
Di solito a che età smettono di crescere gli organi?
Quando cresci ti farà male qualche osso, o qualche parte del corpo?
Come cresciamo? E' diverso per ognuno di noi?
A che età il corpo umano è sviluppato per bene?
A che età è possibile avere figli?
Come si fa a riprodursi?
Qual è l'età più adatta per fare bambini?
Non ho capito come mia mamma ha fatto a farmi crescere nella pancia...
Come nasce un bambino?
Da dove escono i bambini?
Perché nascono bambini con gravi malattie anche se i genitori sono sani?
… Stupende!
Faccio vedere loro un filmato di circa quindici minuti. Sono tutte riprese dal vero.
Restano incantati.
L’ovocita naviga nella Tuba di Falloppio, gli spermatozoi nuotano nel liquido seminale, ovocita e lo spermatozoo si incontrano, si sviluppa la morula che continua il suo viaggio nella tuba. Il filmato si concentra ora sui cromosomi, sulle cellule totipotenti, sulle singole cellule che si differenziano e si aggregano in tessuti. Io parlo sul filmato muto e spiego. Do il nome alle cellule e ai tessuti che si organizzano. Poi riprende il viaggio. La blastocisti arriva in utero. Un fotogramma dell’annidamento. Lo sviluppo dell’embrione e del feto visti con fetoscopia. Le bozze delle mani e dei piedi, della testa, degli occhi delle orecchie, del naso e della bocca, e un cuoricino che batte a tutta velocità. Un feto che ha meno di dieci giorni di vita ed è già una miniatura perfetta. Spettacolo!
Ho risposto a buona parte delle loro domande, ma ora si sono entusiasmati e iniziano ad avere lo spazio per alzare la mano e chiedere tutto quello che gli passa per la mente.
Forse anche quello che non pensavano di osar chiedere.
Alla fine dell’incontro si avvicina una bambina. Vicina vicina, all’orecchio, e mi bisbiglia: ma tu hai bambini?

Le ho risposto dicendo la verità. Con ciò sono sicura di non averla delusa, perché ha capito che facendomi quella domanda, ha dimostrato di aver compreso cosa volevo partecipare con l’appena trascorsa “lezione di vita”: il Grande Mistero che la rende possibile!



domenica 7 febbraio 2016

"Non uccidere donne e bambini"



Non uccidere le donne e i bambini, non tradire il proprio Khan, combattere il nemico fino alla morte … sono “norme” di legge che spingono a fondare l’impero mongolo, il più vasto della storia umana.
Temüjin è un uomo, che chiede ai suoi guerrieri di “essere uomini”.
Questa esortazione permetterà di essere vincente, anche perché spingerà più volte Temüjin, ad andare a chiedere forza all’Essere superiore, a Dio. Che più volte lo aiuterà, anche se il modo rimarrà agli occhi degli spettatori “miracoloso” e non esplicito.
Aiuto di cui Temüjin resterà grato, grato così da rispettare diverse cose, tra cui il grande Monastero che poteva restare vittima di una delle sue conquiste.
Temüjin è un uomo che decide, e decide grazie al riconoscere di essere scelto. Così come è evidente in uno dei dialoghi finali del film.
Borte osserva marito e figlio.
Il padre dice al figlio: “Hai l’età per scegliere moglie. Sai, scegliere moglie è la cosa più difficile della vita”. E il figlio: “E come farò a scegliere bene”. Il padre risponde: “Ti insegnerò io. Io ho scelto bene”.
Così  Borte interviene: “Ma sono stata io a sceglierti!?”.
Lo sguardo severo di Temüjin, si ferma a guardare negli occhi Borte.
Donna forte, fedele, anche se non secondo i canoni del moralismo atteso. Donna determinata a salvare comunque e sempre, il suo uomo e il loro legame.
Temüjin ancora una volta è “uomo”, e ammette: “E’ Vero”.
Un film del 2007 che merita di essere rivisto.

giovedì 4 febbraio 2016

Guardare le montagne all’orizzonte

Guardare le montagne all’orizzonte, è come guardarsi dentro.
Vedere le cime innevate, è come ammettere l’inverno della malinconia.
Riconoscere le vette, è come dare il nome al proprio desiderio.
Godere di un viaggio con il pensiero, è come attendere una condivisione.
Ricordare la baita tra i larici, è come vivere il calore del bene.
Cercare l’orizzonte, è come chiedere un orientamento.
Ritagliare il cielo con i confini del visibile, è come protendersi all’infinito.
Scorgere lo spicchio di luna nel limpido azzurro, è fiducia che un altro sguardo contemporaneamente lo colga.
Annusare l’aria frizzante che ti assale, è come confidare nell’abbraccio.
Assaporare il profumo del terso, è avere la certezza di essere amati.
Ascoltare il vento, è come vincere i limiti di tempo e spazio.
Toccare il tramonto di una sera che non riesce ad essere fredda, è come accettare che il cuore ha bisogno di te.



giovedì 7 gennaio 2016

Epifania

Leggo, copio e incollo:
EPIFANIA, I RE MAGI, IL VERO SIGNIFICATO DELLA FESTA.
Che razza di bisogno dovevano avere i Magi per mettersi insieme alla volta di un viaggio così lungo! La Scrittura non ci dice molto su di loro, ma una cosa balza subito agli occhi: nel Vangelo essi non hanno nome, sono tre eppure sono trattati come uno. L’amicizia che sperimentavano tra loro era tale che – per dirla con Cicerone – idem velle, idem nolle. Desideravano la stessa cosa e respingevano la stessa cosa. Ma che cosa permette una compagnia di questo tipo, una fraternità che superi le differenze di cultura, di razza, di storia che la Tradizione ci tramanda come tratti distintivi dei Tre Re al centro del racconto dell’Epifania?
La domanda non è affatto scontata in un tempo in cui fra gli uomini, fra gli stessi cristiani, la parola forse più impegnativa e complessa è proprio la parola amicizia, la forma storica della fraternità. Il segreto dei Magi, come accennato poc’anzi, stava nel loro Io. In nessuno di loro c’era infatti contrapposizione tra Io e Noi, tra l’esigenza di fare un cammino – un lavoro – per sé e l’evidenza del fatto che tale lavoro non poteva essere fatto in una deserta solitudine, ma dentro una strada, dentro un ambito umano a fondamento del quale doveva esserci questo
"guardare insieme le stelle", questo tenere aperti gli occhi fissi verso la realtà, ossia verso quel Cielo che della realtà è il suo significato più pieno e più vero.
I Magi tra di loro non parlano, non discutono, non si divorano, ma permangono nel silenzio di chi è tutto impegnato a scrutare il Cielo per cogliere un segno, per cogliere un astro che indichi il passo da compiere. Che libertà dovevano avere i Magi per arrendersi a quel segno così banale, così impercettibile ai soliti occhi, da non essere considerato da nessun altro se non solo da quei tre. Essi non si sono fermati a dire "Che bello!", né lo hanno razionalmente esaminato fino alla sua naturale scomparsa, ma si sono fidati, lo hanno seguito. La stella nella notte era una luce fra tante, ma agli occhi di chi cercava, agli occhi di chi mendicava, era qualcosa di più, era una chiamata.
Così oggi un dolore o una malattia, piuttosto che un amore o un piccolo successo, non si può ridurre a qualche cosa dinnanzi al quale incantarsi o ragionare, bensì ha necessità di essere – per me che lo vedo, per me che lo
vivo – un segno da seguire, una provocazione per partire, una chiamata a lasciare la mia terra per andare, per partire. Ma partire per dove? Le miglia che percorsero i Magi, alla luce dell’arido segno che a volte perfino spariva dalla loro vista, sono il percorso che può compiere qualunque uomo per scoprire che cosa c’è all’origine del segno, che cos c’è alla radice della stella, dietro al dolore, alla delusione, a qualcosa che inizia.
E fu grande – per loro come per noi – la sorpresa di trovare un bambino all’inizio di tutto. La Bibbia ci narra che, davanti al Bambino, non furono delusi o protesi ad una "devota critica", ma furono pieni di stupore, curiosi. E
riconobbero in quel bambino un Re degno dell’oro, un Sacerdote degno dell’incenso, e un Mistero - a cavallo tra la morte e la vita - degno della mirra. Riconobbero Dio. Questa è l’Epifania, la più antica festa della Chiesa dopo la Pasqua. La festa del riconoscimento disarmato di un Dio che si è fatto piccolo, si è fatto Bimbo, per poter incontrare l’attesa e il dramma di ciascuno di noi. Ma la fede, il riconoscimento di quella Presenza straordinaria nella carne ordinaria del Fanciullo di Betlemme, non rimase
un astratto ricordo. Essi tornarono a casa, alla loro casa, alla loro vita, prendendo "un’altra strada", lasciandosi cambiare per sempre, del tutto, da quell’incontro, da quel Bambino.
Ciascuno di noi, dopo i giorni del Natale, è chiamato a chiedersi "chi era" quel neonato che ha adorato nella Notte Santa del 25 dicembre. Ma forse, ancora di più, ciascuno di noi è chiamato a chiedersi chi è, come si chiama, che
cos’è, Colui che sta all’origine, alla radice, di ogni fatto, di ogni mossa, di ogni segno che si manifesta nella realtà.
Epifania è manifestazione, è riconoscimento, è semplicità di cuore. Per tornare alle nostre case, al nostro lavoro come al nostro studio, alle fatiche del nostro matrimonio come a quelle del nostro peccato, per un’altra strada, con un altro sguardo. Perché, dopo aver visto quegli occhi, dopo aver sfiorato le mani di Maria, dopo aver
ascoltato il silenzio di Giuseppe, chi ha ancora paura del 7 di gennaio? Chi ha ancora paura di ricominciare?
E’ una domanda ingenua, forse banale, ma tutto dipende dall’Io, dal suo desiderio, e da coloro che ogni giorno ci scegliamo – e possiamo sceglierci – come compagni di strada, come scrutatori delle stelle, come Re Magi.

sabato 2 gennaio 2016

2016 e neve

Sono tornata a casa;
accompagnata da molteplici e soffici, compagni bianchi.
Io li amo.
Ora mi stanno ipnotizzando: scendono fitti, illuminati dai lampioni della piazza.
Si attaccano senza esitazione alla pavimentazione, alle auto, all’ombrello della signora che sta rincasando di fretta.
Dal vetro sento il freddo che li avvolge nella sera, ma nessun rumore.
La notte sarà silenziosa, come solo la neve può rendere.
Penso alle montagne e alle piste da sci, che finalmente si vestiranno d’inverno.
Considero chi deve partire, chi deve viaggiare, chi deve arrivare.
Siate prudenti – mi verrebbe da dire – perché ciò che appartiene al freddo sa essere arduo.