Come si fa a non desiderare il Cielo di fronte a cotanta bellezza?
martedì 27 novembre 2018
lunedì 12 novembre 2018
First man ... and his wife Janet
È bello vedere un film dove la figura femminile ha la
statura di una donna.
Della donna che si desidera essere, se si volesse avere
entità di amica, compagna di vita, moglie, madre.
Una donna che cammina per casa a piedi scalzi, e che resta in silenzio davanti al proprio dolore e al dolore dell’uomo che ama,
per l’addio che dà una figlia; così come può alzare la voce e scaraventare una
valigetta se c’è da dire, da dire un possibile addio ai propri figli.
Insomma un film che intitola “Primo uomo”, ma che io avrei
almeno sottotitolato “ … e Janet Shearon: sua moglie”.
Detto questo il documentario - con estremo realismo - racconta
della conquista tra le più grandi dell’umanità, per la quale risuona
ripetutamente la domanda: ma ne valeva la pena?
Come risponde l’interprete: "Forse la domanda andrebbe posta
prima di essere immersi nella dinamica che vorrebbe rendere possibile la
conquista".
In ogni caso, il film risponde alla domanda, che è la domanda della vita.
Janet
introduce la risposta in un dialogo con Neil Armstrong affermando: “Sarà
un nuovo inizio, sarà un’avventura!”
La risposta conclusiva del film è: non è il dolore, la fatica o il
rischio che frenano l’uomo, bensì è il desiderio di infinito che lo rende
inarrestabile!
Un film da vedere.
giovedì 27 settembre 2018
Se... pensi.
Se ti svegli preoccupata perché hai da condurre una giornata
di lavoro con venti colleghe: pensi che è inevitabile avere timore delle
imprevedibili possibilità;
se alla fine del convegno sei lieta e grata: pensi che è
ragionevole contare sulla collaborazione dei tuoi simili, per una costruzione
comune;
se hai da insistere per far comprendere ad una laureanda che
una media ponderata a fine carriera, non può essere legata al voto d’esame
sostenuto il giorno precedente: pensi che è utile alzarsi, prendere il faldone
d’archivio e fare con lei un ragionamento matematico;
se ti accorgi che l’indomani hai dato un appuntamento ad una
studentessa di un’altra università e all’improvviso - per quel momento - si è
sovrapposto un impegno inderogabile: pensi che sarebbe stato utile appuntarsi
almeno un recapito telefonico dell’ignara fanciulla;
se ti ritrovi a dover riaccendere il computer quando è tardi
e stai uscendo dallo studio: pensi che hai fatto tutto quello che ti hanno
chiesto, ma ti sei dimenticata di una mail che avresti dovuto inviare
“inderogabilmente”;
se ti trovi in mezzo alla strada con il rischio di essere
travolta da un taxi davanti e da un tram di dietro: pensi che hai attraversato
la strada con il semaforo rosso, in modo assolutamente distratto e che … “non è
la tua ora”;
se percorri piazza del Duomo e ti incanti a guardare la luce
del sole che illumina la candoglia: pensi che la giornata è stata
“meravigliosamente settembrina”;
se alle 19.30 di sera incontri sulle scale della
metropolitana in uscita, un signore che hai incontrato alle 6.30; pensi che
molto probabilmente sarà stanco come lo sei tu;
se raggiunta l’auto ti accorgi che le foglie degli alberi
hanno macchiato “collosamente” i vetri: pensi che l’autunno è ormai vincente;
se finalmente raggiunto il silenzio della casa, riemerge
come ti senti goffa con chi ti è più caro: pensi che è impossibile amare se non
fosse per il Mistero che lega;
se alla fine della giornata ti trovi a tratteggiare il
vissuto con uno scritto: pensi che è perché - per quanto possibile - vorresti
trattenerlo e, nello stesso tempo, consegnarlo!
mercoledì 29 agosto 2018
sabato 25 agosto 2018
lunedì 23 luglio 2018
Lo svelarsi del Mistero
Diverse volte, alla mattina, capita che il mio percorso si intrecci con quello di uno scoiattolino.
Lui attraversa la strada proprio nel contempo che io arrivo con la mia
Panda.
Mi fermo, e lo lasco passare, come si farebbe con un pedone.
Non so se questo accade perché:
ha capito che anche a me piacciono le noccioline (Peanuts);
albeggia, e anche lui ha la sveglia a quell'ora;
oppure, perché vuole intercettare la tenerezza del mio pensiero di sala
parto e nascita.
Accade, durante il lavoro, che lo sguardo di un bambino piccolo piccolo mi ferma il respiro.
Lo stupore di due occhietti che vorrebbero mettermi a fuoco, dilatano
l’attimo dell’apnea post espiro.
Non so se questo accade perché:
giovedì erano occhietti vitrei, di una creatura inanimata;
venerdì quel piccolo uomo con la pelle ancora bianca, aveva i tratti
inconfondibili di un africano, che tra qualche giorno sarà nero;
oggi con Edoardo non si poteva che incrociare lo sguardo, perché in un
leporino il resto del viso resta incompleto.
Spesso capita, camminando in città, che attraversando piazza Duomo mi lascio sorprendere da dei suoni
accordati.
A volte è il flauto di un uomo straniero.
Altre volte è un appassionato sassofono tenore.
Oggi era un violino, di cui l’archetto era sollevato da una giovane ed
agile mano.
Non so se questo accade perché:
gli Inti-Illimani piacevano a mia sorella, pertanto mi suscitano dolci
ricordi;
quando ascolto un fiato struggente, la malinconia mi assale;
dopo una lunga ed intensa giornata, vorrei che il passo che mi riporta
a casa, fosse leggero.
E' così, e non so se quello che mi accade, riesco a comprenderlo come dovrei.
A volte penso di sì, a volte credo di no.
So solo una cosa con certezza: nell’attimo, se lo so cogliere, si svela sempre un tratto di
Mistero.
sabato 21 luglio 2018
Articoli che restano come segnalibro
«È cruciale per ciascuno di noi: il giorno in cui non ci rendessimo più conto della nostra infermità e della nostra miseria, non ci renderemmo nemmeno più conto della grazia di avere Qualcuno che possa guarire le nostre ferite. Non avremmo più bisogno di Cristo». (Julián Carrón da Dov’è Dio?, conversazione con Andrea Tornielli, Piemme). Prima ho sottolineato questa frase, poi ho fatto un orecchio alla pagina – con la brusca confidenza che ho con i libri che mi diventano cari – poi la ho ricopiata.
Dall’adolescenza, e forse anche da prima, ho sempre avuto l’idea di essere nata con qualcosa di sbagliato. Qualcosa che non funzionava a dovere, come se io fossi stata una casa e quell’errore una profonda crepa in un muro portante, come se io fossi stata un argine, e quell’errore una falla da cui l’acqua poteva penetrare. Mi pareva che i miei amici non avessero quella crepa in sé, oppure che non se ne dovesse parlare. Che ci si dovesse mostrare sereni, positivi, vincenti, o magari anche arrabbiati, ma solo con la società e lo Stato e l’ordine costituito, cioè verso qualcosa di esteriore. Io invece non ero arrabbiata con il mondo, non andavo in giro per Milano alzando il pugno. Era in me, quel taglio che mi ricordava la tela lacerata dei quadri di Fontana. Ma, insomma, era evidente che non se ne doveva parlare. Era il male di vivere descritto da una poesia di Montale: «Era il rivo strozzato che gorgoglia, era la foglia riarsa, era il cavallo stramazzato», studiammo a scuola – ma nessuno in classe avanzò il dubbio che si stesse parlando di noi.
Da ragazza al mattino mi guardavo allo specchio, mi sorridevo, pensavo alla mia crepa e mi dicevo: via, di che ti preoccupi, sei giovane, sei bella. Crescendo però la crepa pareva approfondirsi, nera sul mio muro bianco interiore. Si allargò, si fece malinconia: poi patologica, severa depressione. Andai da dei medici, mi curarono, mi sentii meglio; poi di nuovo, a intermittenza, la crepa si evidenziava, dolente, e sussurrava: non sei guarita, non lo sarai mai. Continuavo a non parlarne con gli amici, col pudore con cui non si parla degli affetti più intimi, o del sesso.
Lessi Mounier. «Dio passa attraverso le ferite», scriveva. Ci riflettei: che fosse, la mia crepa, un pertugio in una parete impermeabile, una lacerazione necessaria? Poi me ne dimenticai, attenta a dosare con cura sempre nuovi farmaci che mi acquietassero quell’ora sordo, ora aspro dolore. Dolore come per una irrimediabile mancanza, come per una radicale struggente nostalgia. E il mondo attorno a me, dentro a quell’inguaribile dolore: «Era il rivo strozzato che gorgoglia…».
Malattia, sensibilità patologica, o che cosa? Da tempo mi sono rassegnata a non cercare più un nome alla mia crepa. È lì, e, direi, con gli anni, più spaccata e più nera. Però stasera, leggendo, quella frase mi ha toccato nel punto più dolente, e mi ha commosso. Perché quella ferita? Se non ci fosse, io fisicamente sana, io non povera, io fortunata, non avrei bisogno di niente. È una salvezza, quel muro spezzato, quella falla. Da cui un fiotto di grazia, incontrollato, può entrare e fecondare la terra inaridita e dura.
Leggi di Più: La mia crepa | Tempi.it
sabato 16 giugno 2018
domenica 4 marzo 2018
giovedì 15 febbraio 2018
lunedì 12 febbraio 2018
sabato 10 febbraio 2018
Donne che sanno amare
Di nuovo si trovò a confrontarsi di
colpo con la propria incredibile ignoranza dell’indole di Alexa. Il fatto di
sapere abbastanza bene come si sarebbe comportata nelle normali contingenze
della vita, e di poter contare in tali occasioni sul grande coraggio e la
franchezza che aveva sempre presagito in lei, lo rendeva ancora più sfiduciato
sulla sua capacità di penetrare nella tortuosa psicologia di un gesto che egli
stesso non riusciva più a spiegare o capire. Sarebbe stato più facile che Alexa
fosse stata più complicata, più femminile – se lui avesse potuto contare sulla
sua comprensione immaginativa o sulla sua ottusità morale – ma non era sicuro
di nessuna delle due cose. Non era sicuro di niente, tranne che, per un certo
tempo, doveva evitarla. Non riusciva a liberarsi dall’illusione che di lì a
poco il suo atto avrebbe cessato di fare sentire le proprie conseguenze.
…
Il grido della moglie lo sorprese. «Non
ti ha dato me … ti ha dato te
stesso». Si protese verso di lui come spinta da un’onta di pietà. «Non vedi?»
proseguì mentre lui continuava a guardarla: «che questo è il dono a cui non
puoi fuggire, il debito che sei costretto a saldare? Non vedi che prima non eri
mai stato l’uomo che lei pensava tu fossi, mentre ora ti ha trasformato, in
modo meraviglioso, nell’uomo che amava? Per una donna, vale la pena soffrire
per una cosa simile, di morirci … questo
è il dono che avrebbe desiderato farti!»
«Ah», gridò lui, «guai all’uomo per colpa del quale ciò avviene. E
io, che cosa le ho dato io?»
«La felicità di dare», disse Alexa.
Edith
Wharton. La pietra di paragone, pag. 84-85 e 134. La Tartaruga edizioni
sabato 27 gennaio 2018
Vivere
È
alzarsi per partire,
è un
nonno tutto curvo che spinge a fatica la carrozzina del nipotino,
è un
bambino che guarda con entusiasmo un ragazzo-giocoliere al semaforo,
è
aspettare nel parcheggio un’amica,
è
ascoltare le notizie alla radio,
è ricordare
chi ha sofferto,
è
fare un viaggio famigliare,
è
riuscire a dire quello che si ha dentro,
è
prendere un caffè al bar,
è
camminare per un paese di case fatte con i sassi,
è un
macellaio che taglia con cura un cappello del prete,
è
comprare delle salamelle,
è la
panettiera che lascia aperta la busta dopo che ha inserito una mica ancora
calda di forno,
è la
casa tra le colline dove ho studiato per la maturità,
è il
fango sulle scarpe cittadine,
è
scoprire una via crucis tra le pietre,
è
vedere alberi con vicino a ciascuno la targa di un nome d’uomo,
è
riconoscere una cappella sotto un porticato,
è
entrare in una trattoria a gestione famigliare,
è un
bicchiere di gutturnio,
è un
piatto di “pissarei e fasoi”,
è
non volersi alzare da tavola,
è
scoprire uno scorcio di sole che accende il pomeriggio,
è
tornare,
è
aprire la porta di casa,
è
una spremuta d’arancia,
è
godere del silenzio di un sabato pomeriggio,
è
spegnere il cellulare,
è
scrivere i pensieri che tornano,
è
lasciare che arrivi la sera,
è abbandonarsi
alla notte.
mercoledì 24 gennaio 2018
sabato 20 gennaio 2018
mercoledì 10 gennaio 2018
WONDER (2017)
Con i film interpretati da Julia Roberts sono sempre caduta in piedi. Non so se li ho visti proprio tutti, sicuramente i più famosi come “Pretty Woman” o “A letto con il nemico”, ma anche i meno famosi come “Scelta d’amore”, si. Sta di fatto che ieri sera è riuscita a destarmi “stupore” per l’ennesima volta - e non solo perché è una donna meravigliosa, o perché è mia coscritta.
Dopo aver accettato di fare qualcosa insieme ad amiche, temevo potesse annoiarmi un film sentimentale, legato a valori americani moralisti. Invece la competenza del regista - che permette ai diversi protagonisti di manifestare il proprio punto di vista con cui affrontare la vita - mi ha appassionato per lo svelarsi della realtà dell’essere umani, che è riuscito a far emergere.
Accettare il diverso è una delle cose più difficili del vivere, ma “non è l’altro a dover cambiare la propria faccia, siamo noi che possiamo imparare a guardare l’altro in modo diverso”. Questo, così da cogliere il punto d’attrazione e la spinta per la crescita personale.
Il film ha permesso il commuovermi nell’ordine per: un direttore scolastico con il coraggio educante, una sorella umana, un uomo-padre, una madre determinata, compagni di vita veri (perché disposti al sacrificio per affermarti come amico), il “prodigio” di un bambino che si lascia amare nonostante l’essere sfigurato da una malattia congenita.
Oddio, forse il merito di aver trascorso una serata piacevole più che a Giulia, devo riconoscerlo a Stephen Chbosky … ma va bene così.
Consiglio: “Wonder”- un film da vedere.
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