sabato 11 novembre 2017

La bellezza di leggere


Mi capita di leggere molto spesso. Leggo per tanti motivi: per informarmi, per studiare, per correggere, per imposizione, per volontà. Con questo, resta - quando posso scegliere io di leggere una cosa piuttosto che un’altra - di chiedermi quali testi scegliere e perché. Ultimamente alla prima domanda: cosa scegliere; ho dato una risposta strategica. Mi faccio "passare" i libri da chi ne legge anche più di due a settimana. Io ne leggo circa uno al mese, se non meno, pertanto sono certa che chi ne legge più di me potrà consigliarmi qualcosa che ha già superato un filtro: la critica di chi è più avvezzo al gusto del “bel leggere”. Sul perché leggere di volontà una cosa piuttosto che un’altra ho adottato un’altra strategia. Non andando a caccia io stessa di romanzi, gialli o qualsiasi altro genere di scrittura per rispondere ad un mio gusto personale o ad una ricerca particolare di significato, mi rimetto a dare risposta al quesito a fine di lettura; come a dire: mi sei stato suggerito ed ora cosa mi suggerisci?
È così che ad oggi mi trovo di voler guardare ai suggerimenti degli ultimi due libri assaporati.
Il mese scorso ho consumato lentamente “L’età dell’innocenza” e mi sono ritrovata a considerare che spesso l’uomo può rinunciare a una passione quando la vita è dettata da un moralismo fatto di convenzioni e apparenza; ma l’uomo non può rinunciare al desiderio quando la vita mette a nudo la necessità di essere veri e reali.  

Ora mi ritrovo ad aver divorato con inquietudine “La ragazza del treno”, saltando da uno stile lento e romantico ad uno frammentato ed enigmatico. La quarta di copertina dice che non guarderò più fuori da un finestrino del treno come prima. Forse non sarà così, ma è vero che il romanzo è sublime nel trasmettere il mistero drammatico che è ciascuna vita, e quanto l’altro possa restare incomprensibile ai nostri occhi ciechi, e al nostro cuore sordo.


mercoledì 30 agosto 2017

Stasera va, va così.

Si torna al quotidiano,
tornare è un viaggio,
un viaggio caldo,
caldo come l’auto parcheggiata al sole.
È ritrovare le cose solite,
eppure cambiate.
L’irruzione di ladri ha lasciato il segno,
così come ha lasciato il segno lasciare i monti,
lasciarti partire,
accettare di andare a casa.
Manca il silenzio della cima,
resta la nostalgia del sole,
della luce che fa scoprire il colore dei tuoi occhi,
colore uguale a quello di tuo padre.
Eppure oggi ho fissato degli occhi,
occhi in lacrime da dolore profondo,
dolore antico,
generato da un peso di zaino troppo pesante,
troppo pesante per l’età in cui è stato caricato.
Lo zaino era pesante anche per la pietraia,
perché era pensato per il ghiacciaio,
il ghiacciaio avrebbe svuotato il carico.
Così ha cercato di alleggerire il peso l’abbraccio,
l'abbraccio che ho cercato di far sentire,
l’ascolto che ho cercato di dare,
di dare ad una donna giovane,
ad una futura ostetrica,
che non sa ancora se lo diventerà.
Ma il destino è buono,
ne sono certa,
ne sono certa perché quanto te l’ho ricordato,
mi hai sorriso.
Un sorriso fugace,
schivo così come quando si cerca di farti una fotografia,
di trovare il tuo sguardo,
di toccarti.
Ma toccare non deve essere un trattenere,
è giusto lasciar andare,
è buono tenere la giusta distanza,
la distanza di frasi monche,
delle parole che d'inchiostro nascono ora.
Così,
stasera va così,
il mio viaggio si traduce in frasi,
frasi brevi,
forse troppo brevi per essere comprensibili,
ma è il bello della vita:
trovare momenti,
attimi in cui scoprire frammenti di mistero,
attimi in cui il mistero si svela,

attimi in cui le distanze del viaggiare monadi si annullano.

lunedì 10 luglio 2017

Il canto delle cicale

Il ricordo è  legato al loro stridere acuto, nel bosco di pini marittimi del barone Fumarola. Il caldo insopportabile mi faceva sudare i piedi e le piccole ciabattine da mare - giuste per una bimba di tre anni - scivolavano rispetto ai piedini, così da mettere le dita nelle condizioni di urtare gli aghi lunghi e pungenti, che tappezzavano il terreno.
Questo disappunto non fermava il mio pellegrinare, perché guardare i tronchi lanciati e ombrosi, diventava un gioco. Restavo alla ricerca degli involucri abbandonati dagli insetti canterini, mutati.
Oggi - che sono diventata grande - il loro canto è  legato al passaggio da parchi cittadini, dove il caldo di luglio nutre lo stesso cicaleccio che accompagnava le lunghe estati dell'infanzia.
Guastalla, parco delle Cave, parco dei Fontanili; in tutti, quegli insetti stagionali dominano lo spazio sonoro.
Mi riposa ascoltarli. Mi piace cercare di identificare il fruscio che domina sugli altri. Sorrido al pensare che dietro ad una melodia polifonica albergano numerose cicale, che la letteratura ha sempre considerato zuzzurellone.
Forse godo del fatto che il mio desiderio di spensieratezza, sia innescato da uno sbattere di ali.

domenica 2 luglio 2017

Gita domenicale a Fuipiano in valle Imagna

Tornare dove sono stata portata a cinque giorni dalla nascita;
riconoscere scorci dell’infanzia;
raggiungere boschi di latifoglie stranoti;
camminare su prati su cui si è corso per il primo decennio di vita,
dirsi cose tra cugini come quarant’anni fa;
godere della mamma che la racconta a suo fratello;
guardare con stupore la villa che apparteneva allo zio;
prendere l’ombra delle betulle a cui si attaccava l’amaca;
stare al sole sulla panchina di sasso dove trastullavo il bambolotto;
riconoscere che lo sguardo si porta al Resegone che non è cambiato;
commuoversi perché il cuore è sempre lo stesso;

accettare che la nostalgia può essere per qualcosa che c’è, o per qualcuno che manca.

giovedì 8 giugno 2017

Sempre, per sempre.

Lo scialle era ripiegato in modo da fargli vedere il visetto rugoso e le manine avvizzite. Stava lì impalato e si chiedeva che cosa si aspettavano che se ne facesse, le donne, di quel fagotto che la levatrice gli aveva messo fra le braccia, quand’ecco all’improvviso sentì una scossa che fece tremare lui e la bambina. Non veniva da nessuna delle persone presenti, eppure non riusciva a rendersi conto se fosse stata la piccina a trasmetterla a lui o lui alla piccina. E subito il cuore cominciò a battergli nel petto come non era mai accaduto prima, e di colpo non si sentì più intirizzito, né triste, né irrequieto, né arrabbiato e gli parve invece di star proprio bene. La sola cosa che lo inquietava era di non riuscire a capire perché il cuore dovesse battere e martellare in quel modo nel suo petto, dal momento che lui non aveva né ballato, né corso, né si era arrampicato su per montagne scoscese.
“Vi prego”, disse alla levatrice, “mettete la mano qui, e sentite! Mi sembra che il cuore batta in modo così strano”.
“E’ proprio batticuore”, asserì la levatrice, “forse ci andate soggetto ogni tanto?”
“No, non l’ho mai avuto prima”, assicurò Jan. “Mai in questo modo”.
“Non vi sentite bene, allora? Avete male in qualche posto?”
No, no davvero.
La levatrice non riusciva a capire che cosa gli succedesse. “Ad ogni buon conto vi prendo io la bambina”, disse.
Ma allora Jan sentì che non voleva staccarsi dalla piccina.
“No; lasciatemela tenere ancora, la bimbetta”, replicò.
E le donne dovettero leggere nei suoi occhi, o udire nella sua voce, qualcosa che le rese allegre, perché la levatrice increspò le labbra e le altre scoppiarono addirittura in una grande risata.
“Non vi era mai capitato prima di voler così bene a qualcuno da avere il batticuore per causa sua?”, chiese la levatrice.
“No”, rispose Jan.
E nello stesso istante capì cos’era stato a far battere il suo cuore. E non soltanto questo: cominciò anche a intuire cosa gli era mancato per tutta la vita. Perché chi non sente battere il cuore nel dolore o nella gioia non può di certo essere considerato un vero essere umano.

Pag 20-21 Edizione Iperborea de “L’imperatore di Portugalla” di Selma Lagerlöf


Iniziare e terminare di leggere un romanzo per riascoltare che, per poter amare da vero essere umano si ha da nascere, vivere, morire.

domenica 14 maggio 2017

Il padre e la volontà di vivere

Steinbeck in «Furore» fa dire alla figura femminile protagonista del romanzo, che interloquisce con suo marito: “Siamo più adattabili che voialtri uomini, - spiegò la mamma con dolcezza. – Noi la vita ce la portiamo sulle braccia, voialtri ve la portate dentro la testa. Non ti tormentare, chi sa … chi sa che l’anno venturo non si riesca ad avere un pezzetto di terra nostro”. E lui risponde – “Quando non si ha più niente, come farsi illusioni? Finita la stagione dei raccolti non abbiamo più lavoro. E cosa faremo? Come faremo a mangiare? Con Rosatè, ormai vicina al suo tempo. Fa paura pensare. È per questo che io vivo nel passato. Sembra che non c’è più niente davanti a noi e che la nostra vita è finita”. La mamma sorrise. – “No, babbo non è vero. Questa è un’altra cosa che le donne capiscono meglio degli uomini, me ne sono già accorta. L’uomo vive a scosse. Muore un vecchio, o nasce un bambino, sono due scosse. La donna si lascia vivere, un po' come l’acqua di un fiume: piccole anse, piccole cascate, ma l’acqua continua a scorrere. È così che noi donne vediamo la vita. Nessuno di noi muore del tutto: la gente continua, con qualche cambiamento, magari, ma continua”.
A questo punto del dialogo Steinbeck fa intervenire lo zio. Altra figura maschile estremamente simbolica nel romanzo, il quale sentenzia: - “Non si può dire, - fece zio John. – Chi gli impedisce di fermarsi un bel giorno? A forza di sentirsi stanca, un bel giorno si sdraia e si lascia morire”. *
È proprio così che questo Nobel della letteratura dimostra di conoscere il genere umano. L’ultima battuta è detta da un maschio, ed esprime con estrema crudità quello che sta dimostrando mio padre.
E come ostetrica posso confermare l’intuizione geniale di Steinbeck, aggiungendo che l’uomo detta il vivere al corpo con la testa, così che il corpo non farà che seguire la volontà. La donna, in opposto, segue con la testa ciò che le detta il corpo, e la testa si lascerà addomesticare dal corpo. È per questo che la donna sa partorire. È per questo - forse – che l’uomo sa dettare quando lasciarsi morire.
Ed è per questo che Steinbeck conclude il romanzo con una scena spettacolare che vi rimando a leggere; quale dolcezza infinita della possibilità femminile di sostenere la vita. Mentre al contrario, rozzi individui non affrontano l’argomento - di cui questo breve post - banalizzando con affermazioni quali: «Le donne ragionano con l’utero».


*Dialoghi tratti dal romanzo «Furore», di John Steinbeck 

domenica 7 maggio 2017

sabato 15 aprile 2017

venerdì 3 marzo 2017

Figlia dell'era tecnologica

Qualcuno dovrò pur ringraziare pubblicamente!
Ho da leggere fino a tardi quando fuori è buio: schiaccio un pulsante e mantengo la luce.
Ho da lavare diverse lenzuola, quando il tempo stringe: schiaccio un pulsante e avvio il programma.
Ho da sgrassare i piatti dell'altra sera: schiaccio un pulsante e parte la lavastoviglie.
Ho da frullare una quantità industriale di prezzemolo (chi l'ha comprato forse ha esagerato): schiaccio un pulsante e in un battibaleno è tutto tritato.
Ho da iniziare a caricare le valige per il viaggio e la rimessa è nel seminterrato: schiaccio un pulsante e mi raggiunge l'ascensore.
Devo uscire con la macchina dal garage: schiaccio un pulsante e si aprono i cancelli.

Ora, potrei andare avanti parecchio per indicare tutti i pulsanti che ho schiacciato dalle nove di stamattina ad adesso.
Tra l'altro non voglio omettere quelli che in questo istante, ripetutamente, vedono il mio polpastrello così da garantire lo stesso scritto che li descrive.

Con ciò: grazie perché sono nata nell'era della tecnologia!

Letture (5)


Angeli della notte
A. Joseph Cronin

giovedì 2 marzo 2017

Letture (4)


Avventure in due mondi
A. Joseph Cronin

martedì 21 febbraio 2017

Letture (3)


Le chiavi del regno
A. Joseph Cronin

sabato 4 febbraio 2017

Letture (2)


Grazia Lindsay
A. Joseph Cronin

domenica 29 gennaio 2017

Letture


Viviamo ancora
A. Joseph Cronin

sabato 28 gennaio 2017

Studiare, insegnare, fare ricerca.

28 gennaio san Tommaso d’Aquino
All’inizio dell’assemblea liturgica

O Dio, fonte di luce e di grazia, che illuminasti san Tommaso d’Aquino in modo mirabile e singolare con il carisma della tua sapienza, a quelli che sono chiamati a studiare e a insegnare concedi l’amore sincero e orante della ricerca perché possano trasmettere fedelmente agli altri la verità contemplata, a edificazione della tua Chiesa.
Per Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore e nostro Dio, che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

giovedì 5 gennaio 2017

Una sera. Un fim.

La notte poi non ho dormito, ma non per il film, per il vento. Anche se il film ha influito con una certa insistenza sui pensieri del riposo insonne. Ho così riempito con la mente, la vigilanza nel buio, indotta dai rumori torvi legati allo sbattere di finestre, fioriere, tendoni e sibili tra le fronde. La visione su grande schermo mi ha colpito perché un uomo – interprete della trama - non è stato autocelebrativo, ricordando a tutti che ciò che si riesce a fare di buono è sempre nel riconoscimento della collaborazione con un altro. Un altro che può essere il copilota, le hostess, l’equipaggio, tutti gli operatori dei servizi di emergenza… tutti coloro che collaborano all’opera che si dipana. Io mi sono anche figurata, nelle mie riflessioni notturne, che se questo altro che si riconosce compagno, ha da essere innanzitutto l’Altro con la A maiuscola, tutto ciò che è il nostro “fare” sarebbe ancora di più "grande e buona opera". Ma per ieri sera è stato sufficiente rivivere ciò che è accaduto a New York nel 2009: 155 persone si sono salvate perché a partire da chi aveva più responsabilità - fino ad arrivare a chi ne aveva sicuramente di meno - tutti hanno collaborato ad evitare una sciagura. “Meglio un ritardo che un disastro” - ad un certo punto del film legge da un bigliettino Sully - ed è proprio vero. Meglio il ritardo della reazione umana, dello spazio del libero arbitrio, che il meccanico e freddo calcolo delle tecniche compiuterizzate che asetticamente esprimono perfezione apparentemente possibile, ma ingannevole. Ingannatrice e distorta, la realtà virtuale che non tiene conto della carne e del sangue che commuovono, mette il dubbio anche a Sully di aver “fatto tutto il possibile e anche più del possibile”. Ma il grande Clint Eastwood - con la regia e produzione - governa la ripresa di un fatto reale dal capitolare sincero: il cuore dell’uomo è fatto per la verità e trova riposo solo in essa. Così dimostra l’equipaggio salvato da una sciagura, così dimostrano i cittadini newyorkesi, così esprime l’abbraccio di una albergatrice sconosciuta. Un film da vedere per chi non l’avesse già fatto… Unica pecca: perché la moglie di Sully non va immediatamente a New York per dire all’uomo che ama che lo ama abbracciandolo… e si limita ad una serie di telefonate di cui due terzi del dire sono fuori luogo? Perché la figura femminile del film è così lenta ed egoista? Domande d’obbligo, visto che mi rammarico sempre quando il mio “genere” viene impoverito nelle sceneggiature.