La vita fa diventare poveri.
Quando si è giovani si vuole avere il mondo a portata di mano. Si vuole prendere tutto indiscriminatamente, quasi la vita fosse un ipermercato. E si butta nel carrello di tutto e di più, come si è soliti dire, nell’illusione che, prima o poi, non si mancherà di niente. Così con le circostanze.
La giovinezza vuole l’abbondanza, vuole l’autarchia, vale a dire il non aver bisogno di niente e di nessuno.
Ma la vita la sa lunga. E lascia giocare. A un certo punto, però, prende in mano la partita ed è lei a dirigere il gioco.
Il mondo non sembra più a portata di mano, gli ipermercati diventano noiosi e, per giunta, fanno perdere molto tempo. Allora si comincia un po’ a pensare: “A cosa non posso rinunciare? Di cosa, invece, posso fare a meno? E, dove cercare? E’ meglio il mercato o l’ipermercato? Cosa me ne faccio di tante cose?”. Ma, più profondamente, l’autarchia nelle cose e nei rapporti corrisponde alla condizione dell’essere persona?
La vita, sì, che sa fare il suo mestiere…
Si impone, come una gran signora, e obbliga a riconoscere l’essenziale indigenza, ossia sapersi poveri.
Le cose: quelle che servono. La compagnia delle persone: il maggior numero possibile. E quando, per caso, se ne trova una che ha una parola da dare, una di quelle che non si erano mai sentite e che apre nuovi orizzonti, sua maestà la vita fa mettere in ginocchio. E adorare.
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