sabato 17 settembre 2016

Voler bene (2)

Maria, medico geriatra, ieri è andata a fare una visita domiciliare per valutare la possibile attribuzione di invalidità ad un ultranovantenne. È accaduto al mattino pertanto alla sera ha potuto raccontare come si sono svolte le cose.
Arrivata in una umile casa di povero quartiere della periferia milanese, Maria è accolta da una coppia di coniugi canuti, con una figlia in loro compagnia. Il soggetto della visita è un uomo reduce da vent'anni di lavoro come “spacca-pietre” in Germania, rientrato in Italia per lavorare altri venticinque anni per le Ferrovie dello Stato come “lava-carrozze”, si chiama Angelo. La moglie Anna lo osserva con sguardo amorevole, la figlia vigila per l’occasione sui genitori.
Angelo si rivela subito impegnativo. Tremolante, seduto tutto curvo su di una poltrona governata da sistemi telecomandati, fa fatica ad articolare la voce, ma saluta con rispetto. Per la visita c’è da invitarlo a cambiare stanza, così si ha modo di constatare che l’alzarsi richiede un certo tempo ed impegno e resta indispensabile il deambulatore che viene spinto a fatica. Raggiunta la camera da letto, si procede con una visita di individuazione di disfunzioni organiche, non solo legate alla longeva età, bensì legate al fatto che è ormai conclamato un morbo di Parkinson. La figlia vorrebbe intromettersi per aiutare il padre, ma fa parte della visita riuscire a comprendere il livello dei deficit, per cui il soggetto delle cure non va sostituito.
Ora si torna in cucina-salotto perché la seconda parte della visita prevede di somministrare alcuni test attitudinali che classificano i possibili decadimenti cognitivi.
Tutto procede lentamente, come ci si aspetta che possa procedere in un soggetto di cui la compromissione del corpo gravemente scoliotico, quasi sicuramente sfocerà in una invalidità riconosciuta.
Manca l’ultimo step della visita. Maria chiede ad Angelo: “Scriva una frase per favore”, porgendo all’anziano un foglio e una penna.
Silenzio. Lungo silenzio. Tempo. Molto tempo.
Interviene la figlia: “Dottoressa guardi che mio padre è tantissimo tempo che non lo vedo scrivere, lasci stare…”
Maria: “Non si preoccupi. Diamo tempo”.
Maria, guardando lo sguardo presente di Angelo sul foglio, ha capito che ci sarà sufficiente energia per comandare una mano come si conviene. Ci vuole solo tempo. Il tempo darà la possibilità di ordinare i processi.
Finalmente Angelo comincia a scrivere, con un tratto appena appena decifrabile ma chiaramente interpretabile: “Anna ti volio bene”.

Spettacolo! Ecco una sfumatura del voler bene: un tempo che governato dalla commozione, lascia emergere il profondo che scalda il cuore e giustifica il nostro limite, anche di grafia. 

mercoledì 14 settembre 2016

Voler bene

Cosa vuol dire voler bene? Me lo chiedo spesso e tutte le volte che me lo domando penso che spiegare cosa vuol dire “voler bene” sia una delle cose più difficili della vita.
È difficile dire di cosa si tratta per diversi motivi, tra i quali, a mio parere, c’è quello di pensare che dobbiamo descrivere una realtà di cui siamo capaci e il confondere il “voler bene” con un sentimento passeggero.
Di fatto credo fermamente che il bene sia innanzitutto un balsamo di cui siamo riceventi, e che nel momento in cui è vero, è un per sempre ineludibile.
Da non dimenticare è poi che ciò di cui si fa esperienza, non sempre è riducibile a poche fredde parole. Per descrivere alcune perle della vita sarebbe necessaria calda poesia … e ben sappiamo, che non sempre “siamo capaci” d’arte di lemmi.
Oggi, ancora una volta, mi sono posta il difficile quesito, ma sono stata fortunata.
Non ho avuto il tempo di arrovellarmi in intricati pensieri, perché ho lasciato che lo sguardo si fermasse ad osservare un bambino che stava seduto al fianco del suo papà, durante il tragitto metropolitano che mi separa dal centro città alla periferia di casa.
Il bambino giocava con una spada. Uno di quei giocattoli di plastica che sembrano veri. Durante le “sciabolate”, trattenute con giusto limite, continuava a chiamare il papà, che pazientemente, ad ogni richiamo, prestava l’attenzione. Ad un tratto, come tutti i giochi e l’uso di giocattolo, anche la bella spada ha stancato il bambino, che prontamente nel suo papà ha trovato una soluzione di custodia. Il mite papà ha preso la spada e l’ha infilata nella cinghia superiore dello zainetto. Quella cinghia a forma di maniglia che normalmente ci permette di prendere lo zaino mantenendolo verticale. Così è stata trovata una guaina al giocattolo, che da quel momento in poi è restato sul pavimento, serrato tra i piedi del papà.
Ora il bambino, con le mani libere, ha iniziato ad essere affettuoso con un babbo che lo richiamava ad un ordine di gesti quali: il provocare solletico nei limiti del contenibile, il bisogno di mantenere la maglia senza eccesso di “sgualcimenti”, l’agitarsi entro il raggio che non mettesse a rischio di caduta.
Contemporaneamente ai richiami verbali, sempre molto contenuti, il babbo teneva una mano in modo tale da prevedere possibili movimenti imprevedibili del figlio, mentre l’altra mano assecondava il nuovo gioco: trastullarsi con la sensibilità e l’agilità del corpo.
Il mio sguardo non si è stancato di guardare la scena e arrivati al capolinea il padre del “guerriero ginnasta” mi ha dato lo spazio di un sorriso per salutarlo con una parola pronunciata in apprezzamento alla vivacità del figlio: “Stupendo!”
“Stupendo” anche perché dandomi le spalle, mostrava uno zainetto insolitamente ornato da un “oggetto fendente,dolcemente ciondolante”.
In realtà il profondo del mio dire “stupendo” è stato anche perché lo spettacolo ha coinciso con uno di quei momenti in cui mi pare di intuire cosa possa essere il “voler bene”.
Voler bene è legato al lasciarsi disarmare. Lasciare che l’altro vinca la nostra difesa. Cercare l’altro che sappiamo essere presente anche per rispondere al nostro richiamo, al nostro bisogno di attenzione, alla necessità di essere voluti.
Voler bene è accettare il limite del non esser esagerati, dell’essere contenuti in un ordine, in un rispetto, in una gestualità che tiene conto della reciprocità. Che sa cogliere quando è possibile sospendere e riprendere, per confermare sia nella sospensione che nella ripresa di essere presenti all’altro.
Voler bene è dare spettacolo di bellezza. È adornarsi di armonia aromatica d’olio prezioso.

sabato 3 settembre 2016

Dialoghi e silenzio

Mi trovo in coda, ad aspettare il mio turno per fare un biglietto acquisto panini.
Sono ad una di quelle cene organizzate per la beneficienza.
Davanti a me due uomini.
Dietro di me due donne.
Sia i due uomini che le due donne si conoscono tra loro, infatti entrambe le coppie gemellate per genere, discorrono animatamente.
Inizialmente non ho voglia di ascoltare e soprattutto desidero stare in silenzio. La giornata è stata sufficientemente stancante e il rientro dalle vacanze è stato abbastanza sconvolgente. Solo il silenzio può darmi una mano a superare lo shock dell’addio alle montagne, dell’addio alla conquista di una vetta, dell’addio al refrigerio, dell’addio a ciò che è silenzio senza doverlo “fare”.
Stando in coda, il tempo dell’attesa si prolunga, si prolunga esageratamente e l’attenzione inizia a spostarsi in alternanza ai due colloqui concitati l’uno della coppia che mi precede e l’altro della coppia che mi segue. Inizio ad ascoltare interrogandomi: di che cosa stanno parlando così vivacemente due uomini e di che cosa stanno parlando così animosamente due donne?
Rispetto ai due uomini mi viene un sospetto, facilmente gli uomini parlano di lavoro, di donne o di calcio. Lascio così che l’orecchio oda e confermo la mia ipotesi: i due soggetti sono in disputa sull’ultima partita di calcio giocata dai loro figli e sul motivo più o meno condiviso per essere ricorsi ad un rigore.
Rispetto alle due donne la previsione è più complessa. Le donne - se madri - parlano facilmente dei figli, ma spesso i dialoghi che pensi siano attribuibili a problemi di bambini, scopri solo con il loro procedere, che sono per esigenze di canidi. Comunque sia le donne parlano più spesso degli uomini e forse per questo i loro argomenti spaziano e sono meno prevedibili. Possono parlare di distrazioni, di cucina, di palestra, di vestiti, di acquisti, di arredo, insomma di tutto, di un po’, di nulla. Ascolto pertanto senza supposizioni.
È qui che resto stupita del fatto che il dialogo è su argomenti che tratto per il mio lavoro: gravidanza, amniocentesi e villocentesi. Le due signore si confrontano per l’aver fatto la diagnosi prenatale nei confronti del loro nascituro, con estrema disinvoltura.

Ok, ho capito perché quando non sono al lavoro, preferisco ascoltare gli uomini, e in questo caso capisco perché ho preferito ritrovare il silenzio.