venerdì 11 luglio 2014

Levatrice

Venticinque anni che faccio un lavoro meraviglioso: “entrare nel mondo donna”.
Quante ne avrò incontrate di donne, di mamme, di famiglie. Non lo saprò mai, perché non ho tenuto il conto, e di questo un po’ mi dispiace. Ma quello che mi dispiace di più è che non mi è possibile ricordare ogni singola assistenza. Ieri sono stata fermata, prima di scendere al piano seminterrato dove lavoro, da un’ausiliaria. Una donna che vedo spesso, che mi sorride sempre, che è solare come la sua divisa arancione. Dopo il canonico saluto legato all’incontro, insolitamente mi ferma. Ha il coraggio di dirmi: “Mio figlio compie oggi ventuno anni, sai, è nato ventuno anni fa alla una di notte… e al parto mi hai assistito tu. Ma tu non ti ricordi, chissà quante ne hai viste!?”
Mi commuovo. Mi sento toccata su corde profonde. Mi interrogo: avrò fatto bene quello che c’era da essere?
Mi faccio coraggio e le chiedo: “Che bello! Hai un bel ricordo!? Com’è tuo figlio adesso?”
Mi apre la galleria del suo iPhone e mostra la foto di un giovane uomo sorridente, che fa l’occhiolino e con il dito esprime l’ok.
Mi sforzo di far emergere dalla mente il momento in cui ho preso in braccio quel neonato. Cerco di ricordarmi del suo primo vagito, di quando l’ho affidato alle mani tese di questa mamma che adesso sostiene un telefonino. Ho forse una vaga reminescenza.
Sono interrotta nel pensiero perché la donna riprende: “Si, ho un bel ricordo, eri tranquilla, mi hai dato fiducia, è andato tutto bene”. Ecco, finalmente si scioglie il mio timore di smemore: il mio lavoro è per salvaguardare che vada tutto bene, e quella volta è andato tutto bene. Ma il vero bene non è perche ventuno anni fa lei è rimasta contenta, il bello è che lei e suo figlio sono contenti ora. Io ho solo aiutato a mettere un mattone, perché si possa esprimere vita.
Questo non è solo chiesto al mio lavoro da professionista.
Credo che questo sia un po’ l’amare.
Credo che questo sia un po’ lo scopo stesso del vivere.
Dare l’opportunità all’altro, di riconoscere un’intensità di vita.
La prossima settimana torno in sala parto. Sono quasi finiti gli esami e riesco a trovare un po’ di tempo per insegnare sul campo. Mi manca la trincea, anche se un po’ mi intimorisce sempre, perché la domanda è la stessa ogni volta: farò bene ciò che è da essere?

E’ un’incognita che va affidata.
Non posso fare a meno di accettare la sfida del vivere.
Non voglio ridurre la possibilità di imparare ad amare.


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