Venticinque anni che faccio un lavoro meraviglioso: “entrare
nel mondo donna”.
Quante ne avrò incontrate di donne, di mamme, di famiglie. Non
lo saprò mai, perché non ho tenuto il conto, e di questo un po’ mi dispiace. Ma
quello che mi dispiace di più è che non mi è possibile ricordare ogni singola assistenza.
Ieri sono stata fermata, prima di scendere al piano seminterrato dove lavoro,
da un’ausiliaria. Una donna che vedo spesso, che mi sorride sempre, che è
solare come la sua divisa arancione. Dopo il canonico saluto legato all’incontro,
insolitamente mi ferma. Ha il coraggio di dirmi: “Mio figlio compie oggi
ventuno anni, sai, è nato ventuno anni fa alla una di notte… e al parto mi hai
assistito tu. Ma tu non ti ricordi, chissà quante ne hai viste!?”
Mi commuovo. Mi sento toccata su corde profonde. Mi
interrogo: avrò fatto bene quello che c’era da essere?
Mi faccio coraggio e le chiedo: “Che bello! Hai un bel
ricordo!? Com’è tuo figlio adesso?”
Mi apre la galleria del suo iPhone e mostra la foto di un giovane
uomo sorridente, che fa l’occhiolino e con il dito esprime l’ok.
Mi sforzo di far emergere dalla mente il momento in cui ho
preso in braccio quel neonato. Cerco di ricordarmi del suo primo vagito, di
quando l’ho affidato alle mani tese di questa mamma che adesso sostiene un
telefonino. Ho forse una vaga reminescenza.
Sono interrotta nel pensiero perché la donna riprende: “Si,
ho un bel ricordo, eri tranquilla, mi hai dato fiducia, è andato tutto bene”.
Ecco, finalmente si scioglie il mio timore di smemore: il mio lavoro è per
salvaguardare che vada tutto bene, e quella volta è andato tutto bene. Ma il
vero bene non è perche ventuno anni fa lei è rimasta contenta, il bello è che
lei e suo figlio sono contenti ora. Io ho solo aiutato a mettere un mattone, perché
si possa esprimere vita.
Questo non è solo chiesto al mio lavoro da professionista.
Credo che questo sia un po’ l’amare.
Credo che questo sia un po’ lo scopo stesso del vivere.
Dare l’opportunità all’altro, di riconoscere un’intensità di
vita.
La prossima settimana torno in sala parto. Sono quasi finiti
gli esami e riesco a trovare un po’ di tempo per insegnare sul campo. Mi manca
la trincea, anche se un po’ mi intimorisce sempre, perché la domanda è la
stessa ogni volta: farò bene ciò che è da essere?
E’ un’incognita che va affidata.
Non posso fare a meno di accettare la sfida del vivere.
Non voglio ridurre la possibilità di imparare ad amare.
Non posso fare a meno di accettare la sfida del vivere.
Non voglio ridurre la possibilità di imparare ad amare.
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