Per osservare qualsiasi cosa ci vuole un punto di vista, Gibellato ha deciso di far posare gli occhi del visitatore sulle singole statue, sui fregi, sui volti, sugli oggetti scolpiti nella pietra del Duomo, particolari che potrebbero passare inosservati, ma sorprendendoli si può meglio capire perché l’estensore dell’Imitazione di Cristo abbia potuto scrivere: “Ex uno Verbo omnia et unum loquuntur omnia”, da una sola Parola tutto e una sola parola tutto grida. Alcuni di questi particolari sono diventati più visibili solo dopo il restauro. Altri, che Gibellato stesso non ha notato, sono conosciuti solo dagli studiosi, altri forse sono noti solo a chi li ha scolpiti. Come ogni realtà di questo mondo, anche il tetto del Duomo vela e svela. La perfezione con la quale è rifinito ogni particolare, anche il più piccolo e il più inaccessibile, nasconde se non un segreto almeno un’intenzione, un motivo che dia conto di quella perfezione ricercata, voluta, anche se non immediatamente visibile. Come il trucco dei prestigiatori, c’è ma non si vede. Ma, a guardare bene, si può arrivare a scolpirlo. Il grande dantista americano Charles S. Singleton, nel suo La poesia della Divina Commedia, dedica un capitolo alla ricerca de Il numero del poeta al centro, e scopre che non è il tre, nemmeno il dieci, bensì il sette. Intorno a questo numero Dante ha costruito tutta la struttura delle tre Cantiche, uno schema deliberatamente nascosto, ma ben presente nella mente del poeta dal primo canto all’ultimo. Per ricavarlo Singleton ha operato tutta una serie di calcoli a partire dalla numerazione dei versi. Ma i manoscritti non numeravano i versi, pertanto, prima della invenzione della stampa chi avesse voluto cogliere questo percorso a base sette – che conduce al verso 70 del canto diciassettesimo del Purgatorio da cui si dipartono specularmente e simmetricamente tutti gli altri canti – avrebbe dovuto contarsi da solo i versi dei cento canti. Dante si aspettava che il lettore lo scorgesse? Singleton risponde con un esempio che sembra fatto apposta per l’introduzione di questo libro: il fregio scultoreo del tetto della cattedrale di Chartres. “Un particolare lavorato con altrettanta cura che quelli della facciata, benché, data la sua posizione, una volta che il tetto fu completato e gli operai discesero per l’ultima volta dai ponti, non potesse più essere scorto da occhio umano – a meno che non capiti di notarlo a qualcuno che salga lassù per riparazioni. Ma sarà lecito pensare che siffatte considerazioni sfiorassero la mente del maestro che disegnò quel particolare o dello scalpellino che lo lavorò con amorevole cura? No di certo, perché sappiamo che quell’edificio era stato costruito non soltanto per la vista degli uomini. Quel disegno, qualunque fosse il suo posto nella struttura, l’avrebbe veduto Colui che tutto vede, Colui che ha creato il mondo con meraviglioso ordine in pondere, numero, censura; e l’avrebbe certo guardato come prova che l’architetto umano aveva imitato l’universo che Egli, Divino Architetto, aveva creato innanzi tutto per la propria contemplazione, e poi, per la contemplazione degli angeli e degli uomini”. (Charles S. Singleton La poesia della Divina Commedia, Il Mulino, 1978, pag 462). Epperò, settecento anni dopo (ancora il sette) la figura disegnata da Dante fu, per la prima volta, vista da un altro uomo. Singleton è convinto che la cosa non dispiaccia al poeta. Perché i segreti e i misteri sono fatti per essere scoperti. C’è una seconda scoperta nel punto di vista scelto dal professor Gibellato per guidarci sui tetti del Duomo, e come ogni scoperta è una riscoperta, come ogni novità è un rinnovamento. Lo scrittore inglese G. K. Chesterton, vissuto a cavallo tra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo, lo descrive così, parlando di sé e dei “frammenti di futile giornalismo o di impressioni non meno passeggere” di cui è costellata la sua produzione saggistica che paragona ad “avanzi” di pietra e “blocchi frantumati”. E tuttavia – aggiunge – solo in forza di tali frammenti senza importanza oso vantarmi di essere mediovalista (…). So ben io perché ho radunato tutte queste sciocchezze. Non ho pazienza, e forse nemmeno il talento ordinatore necessari per dipanare il filo che pur lega questi miei disordinati scritti. Ma il legame esiste. La sequenza di mostri deformi e sgraziati che ora presento al lettore non è una serie di capricciosi o singoli idoli, scolpiti a caso in tante solitarie valli e isole. Questi mostri sono destinati alle grondaie di una ben definita cattedrale. A me tocca scolpire le figure grottesche perché altro non so fare; e devo lasciare ad altri gli angeli, gli archi e le guglie: Ma non ho dubbi intorno allo stile di questa architettura e alla santità della cattedrale”. (G.K. Chesterton Saggi scelti, Edizioni Paoline, 1962, pag 25).
Tratto da Casotto U., Gibellato E. I Mostri, i Santi e la Rana. Percorso guidato sul Duomo di Milano, Edizioni LINDAU, 2012
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